Tra pochi giorni sapremo.
Il 14 dicembre, in tutti i cinema italiani, uscirà Avatar: La via dell’acqua, e finalmente sapremo se il sequel del film che detiene tutt’ora il record di incassi nella storia del cinema sarà un successo. E non intendiamo solamente dal punto di vista puramente economico. No, Avatar: La via dell’acqua è interessante per diversi motivi e il suo successo non determinerà solo la prosecuzione della saga fantasy di James Cameron, ma forse il destino dei cinema. In un modo o nell’altro.
Se tradiamo un pizzico di entusiasmo per il ritorno dietro la macchina da presa del regista canadese, se ci emozioniamo più del previsto guardando e riguardando le immagini spettacolari del materiale promozionale è perché questo film da un lato risveglia in noi il piacere primigenio del cinema e dall’altro ci offre qualcosa che non vediamo tutti i giorni.
Da quanto tempo il film evento dell’anno non era l’ennesimo sequel di una grande saga, o un nuovo capitolo dell’universo dei cinecomics? Da quanto tempo non entriamo in sala, il giorno dell’uscita, conoscendo poco o niente di quello che (e, soprattutto, come) verrà raccontato?
Avatar: La via dell’acqua non è solo un’annunciata rivoluzione cinematografica (per i mezzi impiegati, le tecniche di ripresa, il ritorno della visione in 3D e quant’altro), ma un’incredibile scommessa da parte del suo regista, che a 68 anni prende ancora cinema e pubblico per le palle.
A quale prezzo?
Scommettere tutto
Nei giorni scorsi la copertina di The Hollywood Reporter dedicata a James Cameron sintetizzava al meglio il rischio di questo sequel a 13 anni di distanza dal primo capitolo: una fotografia in bianco e nero di James Cameron, che sembra uscire dall’ombra, su sfondo completamente nero. Sopra, un titolo semplice, di sole due parole: “All In“. Gli appassionati di poker lo sapranno bene, l’All-In è l’azione più rischiosa, il gioco più coraggioso e quello più disperato, la dimostrazione di sicurezza o l’azzardo del bluff. A carte svelate, al giocatore che ha scommesso tutto non rimane che vincere la partita o perdere completamente.
Non ci sono parole migliori per descrivere l’operazione di Cameron: un’enorme scommessa contro ogni regola e legge a cui siamo abituati. A partire da un budget stratosferico che richiede incassi altissimi per il punto di pareggio, passando per il ritorno degli occhialini 3D con cui immergersi completamente nel mondo di Pandora, sino ad avere la completa e quasi cieca fiducia dell’esperienza in sala. Anche a costo di sacrificare un impianto narrativo complesso (e, va detto, non che la trama sia il punto forte dei blockbuster).
James Cameron, come Jack Dawson all’inizio di Titanic, che si gioca tutto al tavolo di un bar, per dimostrare di essere ancora un filmmaker – nel vero senso del termine – attivo e capace di meravigliare un pubblico enorme. Un 68enne che cerca la novità e le nuove generazioni di spettatori, per rimanere degno della sala cinematografica nonostante la sua generazione sia sempre meno presente in quei lidi. Dei suoi registi coetanei, che un decennio fa (se non di più) incassavano milioni ai botteghini dando vita a pellicole di successo, anche cult, che erano spinti dalla sua stessa anima di innovatori tecnologici e scardinatori dei limiti imposti dall’arte, ne sono rimasti pochissimi. Martin Scorsese, Francis Ford Coppola, George Lucas, Robert Zemeckis sono solo alcuni dei nomi che o si sono lentamente ritirati lasciando nient’altro che un’eredità o hanno trovato casa nelle piattaforme streaming, proprio loro che, invece, del grande schermo ne erano i più fedeli religiosi.
James Cameron con Avatar: La via dell’acqua scommette tutto. Non solo il progetto completo della sua saga su Pandora (il terzo uscirà comunque, ma se il secondo capitolo non dovesse avere successo, Avatar 4 e Avatar 5 non usciranno), ma anche la sua stessa carriera che, dal 1997, è diventata quella del “Re del Mondo”. Già, come Jack Dawson, che in quella partita a carte ha vinto i biglietti per il transatlantico, ha vissuto il più grandioso degli amori, ma proprio per troppo amore si è sacrificato nelle gelide acque dell’oceano.
E se non fosse abbastanza, la scommessa di Cameron non riguarda solo la sua carriera, ma anche il destino dei cinema.
Un morto che cammina
Avatar è un morto vivente. Allo stesso tempo il film con il maggior incasso della storia (quasi 3 miliardi di dollari) e il film che non è riuscito a creare una fanbase di culto. Un film che tutti hanno visto e che pochi ricordano, se non per motivi sarcastici o ironici. Un caso più unico che raro e che dona un retrogusto particolare per l’arrivo di questo sequel. Quasi per ironia, il film che corrisponde all’essenza pura del cinema, che vive grazie alla tridimensionalità, allo schermo gigantesco e all’esperienza spettacolare è specchio del cinema stesso.
Perché il cinema è un morto vivente. Lo è nonostante quello che potremmo definire il periodo post-pandemico, nella maggioranza dei Paesi, è ormai agli sgoccioli. Oggi non ci sarebbero più scusanti: le sale sono a capienza piena, non servono Green Pass o mascherine, eppure le sale soffrono, il botteghino è in affanno e, salvo pochi grandi film di grande consumo (che si spengono abbastanza velocemente dopo il primo weekend), si ha la sensazione di essere in pochi a volere il grande schermo. E non solo in Italia. Negli Stati Uniti, per esempio, l’ultimo weekend del Ringraziamento – cinque giorni che solitamente sono tra i più remunerativi dell’anno – è stato il più povero della storia a livello di incassi.
Il primo Avatar, nel 2009, fu un caso eclatante. Non tanto per i numeri che fece durante il weekend d’esordio, ma per la costanza con cui il pubblico comprava il biglietto. Gli spettatori continuavano a entrare in sala, ancora e ancora, weekend dopo weekend, costruendo un vero e proprio fenomeno che durò da dicembre sino alla primavera. In Italia, per esempio, Avatar nel 2010 incassò la cifra record di 68 milioni di euro, traguardo che nemmeno Checco Zalone è mai riuscito a raggiungere (pur andandoci vicino). Oggi, il maggior successo stagionale e dell’anno è I Minions 2, con solo 14 milioni d’incasso, a cui segue Black Panther che non raggiungerà i 9.
Ed è qui che torniamo alla scommessa di Avatar: La via dell’acqua, “l’evento cinematografico di una generazione”. Perché se nemmeno un blockbuster come Avatar riesce a riportare un pubblico ampio ed eterogeneo in sala, chi potrà mai farlo? Come potranno sopravvivere le sale in un panorama in cui il grande successo conta poco più di 2 milioni di biglietti staccati?
Il film di Cameron deciderà il destino dei cinema, almeno quello a breve termine: potrà essere una bolla d’ossigeno che da sola non basterà, ma che permetterà di riscoprire qualcosa che era mancato e che forse tutti noi ci eravamo scordati. L’esperienza in sala, quella che con un pizzico di poesia a cui non possiamo resistere chiamiamo “la magia del grande schermo”, l’indescrivibile emozione che nessun impianto domestico può rimpiazzare.
Nel prossimo mese capiremo se il morto vivente rivivrà di quella magia o se è destinato a ricevere l’ennesima pallottola dritta al cuore.
È il nostro turno
Chi ha in mano la pistola? Chi dovrà scegliere se gettarla a terra o sparare il colpo fatale? Il pubblico. Noi.
Finora abbiamo visto il tavolo da gioco, ma solo ora abbassiamo lo sguardo scoprendo le carte che anche noi teniamo in mano. Siamo seduti allo stesso tavolo da gioco di James Cameron, lui il nostro Jack, noi il suo Fabrizio. Perché anche in questo caso i biglietti della vittoria si dividono per due.
La vera domanda, dopo tutto questo tempo, è se siamo interessati all’universo di Avatar. Se i tredici anni che ci hanno separato dai due film sono troppi per poter credere ancora a questo racconto o se, invece, proprio perché è passato così tanto tempo non vediamo l’ora di ritornare su Pandora.
Se Avatar: La via dell’acqua non troverà il nostro consenso, metteremo fine alla nascita di un franchise che – ora sì – con quattro sequel in arrivo a distanza di due anni l’uno dall’altro, può costruirsi e risultare memorabile. Il che va benissimo, fa parte del gioco. È il rischio dell’All-in.
Ma se fosse così, qual è l’alternativa? Con un universo Marvel che sembra accusare stanchezza, con un brand come Star Wars che sta vivendo il suo momento più nero, con un certo sentore di ripetitività di brand e franchise che da troppi anni creano appuntamenti sempre più costanti e sempre meno speciali, cosa ci spingerà a uscire di casa e comprare un biglietto per perderci nel buio della sala cinematografica?
L’uscita di Avatar: La via dell’acqua non è solo un evento, ma anche una prova del nove. Con i film indie che trovano fortuna in streaming, con le commedie che non accendono più lo stesso interesse, con i film di genere che non ispirano la stessa curiosità di una volta, la sensazione è quella di star assistendo a un punto di non ritorno. Perché abbiamo idea che i due anni di pandemia ci hanno chiuso, non solo tra le mura domestiche, ma anche mentalmente, mettendo una stringente toppa alla nostra voglia di curiosità, a quel sentimento di incertezza nei confronti delle storie che non conosciamo e che ci può sorprendere. Vogliamo ancora essere sorpresi? Vogliamo uscire dai nostri confini e provare l’ignoto?
Ora la scelta sta a noi, ma dobbiamo agire.
Potremmo rimanere impassibili, tenendo le carte da gioco in mano e stare così, fissi, immobili, in attesa. Ma è stato chiamato un All-in e noi non possiamo fare altro che scoprirle, gettarle sul tavolo e mostrarle a tutti.
È il rischio del gioco, e la sua bellezza.
Poi si vedrà.
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