Integrando le definizioni di due comuni vocabolari inglesi, il Merriam-Webster e l’Oxford Dictionary of English, si scopre che l’espressione La La Land ha due accezioni: 1) uno stato mentale sognante ed euforico, distaccato dalle vicende più dure della vita; 2) un nickname per Los Angeles, in riferimento specifico all’industria cinetelevisiva. L’etimologia è differente a seconda della fonte: “la-la” potrebbe indicare il cantarellare oppure potrebbe derivare dalla sigla di Los Angeles. Questa semplice espressione pare alludere al fatto che, quando si è perse/i nei propri sogni a occhi aperti, si canta e si definisce Los Angeles – terra che con il suo cinema e i suoi teatri produce sogni intrisi di musica.
La La Land è dunque un titolo emblematico per un film che fa confluire tutti questi elementi in un omaggio al musical classico e al cinema in generale. Il film di Damien Chazelle è costruito su un sognatore e una sognatrice di Los Angeles (un pianista Jazz di nome Sebastian e un’attrice in difficoltà di nome Mia) e ci racconta il loro viaggio nostalgico in un mondo di sogni da realizzare – una reminiscenza del momento in cui Don Lockwood e Kathy Shelden si incontrano per la prima volta in Singin’ in the Rain. La La Land è, per forza di cose, intriso di nostalgia non solo per l’età d’oro di Hollywood, ma anche per le opportunità mai sfruttate. Chi (o cosa) meglio del cinema può raccontare le storie e le strade perdute della vita?
Una lettera d’amore al cinema e ai sogni

La La Land è una lettera d’amore a Los Angeles, al cinema, alla musica e a tutti/e coloro che cercano di realizzare i propri sogni impossibili. Emma Stone è Mia, un’aspirante attrice costretta a lavorare come barista nella caffetteria della Warner Brothers che si allontana di nascosto per inseguire il suo sogno. Le terribili audizioni con direttori di casting distratti e disinteressati, però, le fanno perdere lentamente fiducia nel talento che l’ha spinta ad abbandonare il suo luogo di nascita sperduto a Boulder City, Nevada, per le luci brillanti di Hollywood. Il suo problema, afferma il film in vari punti, è che è troppo dipendente dalla convalida esterna (d’altronde, è un’attrice).
Sapete chi non dipende affatto dalla convalida esterna? Il Sebastian di Ryan Gosling, un pianista jazz scontento le cui idee puriste su come il jazz debba essere suonato (e ascoltato) non sono per niente in linea con la libertà e la sperimentazione che lo hanno spinto a questa forma. Sebastian arrangia la sua vita e si logora l’anima suonando canti natalizi nei cocktail bar, ma sogna di aprire un suo club, che ha intenzione di chiamare Chicken on a Stick. Ci vorranno una serie di incontri nel suddetto ingorgo, nel suddetto night e in una festa in piscina, prima che i due si innamorino e che si passi a un montaggio di felici, serene giornate estive.
Maybe I’m not good enough

La ricerca delle loro ambizioni individuali alla fine costa a Mia e Sebastian il loro futuro insieme. Per fare soldi per aprire il suo club, forse anche per dimostrare alla sua ragazza che può fare “l’uomo” e trovare un vero lavoro, Sebastian si unisce a una jazz fusion band guidata da John Legend, firmando per una fatica di Sisifo di registrazioni e tour. “Quando finirai?”, chiede Mia ingenuamente. La risposta è, fondamentalmente, mai. Nel frattempo, Mia resta a casa a sgobbare per il suo spettacolo da solista e si irrita al suggerimento di accompagnare il fidanzato in tour.
Esiste un modo più semplice per preannunciare un risveglio femminista di uno spettacolo di una sola donna? Probabilmente no. Come qualsiasi cosa faccia finalmente emergere una farfalla dalla sua crisalide, Goodbye Boulder City, il monologo di Mia, la fa uscire da una vita di audizioni umilianti. Le prime recensioni sono negative, abbastanza da farla tornare di corsa nell’utero/Boulder City, ma alla fine i produttori bussano alla sua porta – anche se questo prevede l’allontanamento definitivo da Sebastian.
If only

La La Land finisce cinque anni più avanti rispetto alla storia principale. Mia è una grande star, il tipo che ha la faccia stampata sui cartelloni pubblicitari. È anche una madre e una moglie, ma non di Sebastian. Invece ha sposato l’uomo di That Thing You Do (Tom Everett Scott). Una sera escono e finiscono nel jazz club di Sebastian (che fortunatamente si chiama Seb’s, non Chicken on a Stick): mentre Sebastian intona le note iniziali della canzone precedentemente stabilita come “la loro canzone”, Mia entra in uno stato di fuga, una trance in stile Sliding Doors in cui immagina la vita che avrebbe potuto avere, la strada non presa.
Sogna a occhi aperti sui compromessi che avrebbero potuto fare: e se si fossero semplicemente aspettate/i? E se si fosse unita a Sebastian in viaggio, aiutandolo ad aprire il suo club? No, Mia immagina Sebastian che la accompagna in Francia, trascorrendo il tempo suonando nei jazz club parigini. In questo sogno, Sebastian non ottiene il club, ma ottiene la ragazza. Mia, d’altro canto, ottiene tutto ciò che voleva. Dopotutto è la sua fantasia, ma in un film che parla del potere di non rinunciare ai propri sogni, sembra che dovremmo prenderne nota.
As Time Goes By

Accanto a Moulin Rouge! di Baz Luhrmann, il cinema musicale dei primi anni del XXI secolo ci ha regalato moltissimo – da Dancer in the Dark di Lars von Trier a The Happiness of the Katakuris del provocatore giapponese Takashi Miike, alla trilogia Once, Begin Again e Sing Street del musicista irlandese John Carney. Nel frattempo, Hairspray, High School Musical e successi Disney come Frozen e Oceania hanno continuato a far conoscere al giovane pubblico l’intramontabile magia dei musical.
E infine La La Land, il secondo musical di Chazelle (dopo Guy and Madeline on a Park Bench del 2009), salutato come un’opera che ha fatto per il genere ciò che The Artist ha fatto per i film muti. In effetti, dalla sua sfacciata apertura “Presentato in CinemaScope”, passando per gli omaggi infiniti da Singin’ in the Rain a Casablanca, La La Land ci invita ad accogliere il ritorno di qualcosa di perduto, la rinascita di un’età dell’oro.
City of Stars

Il film si apre con una sequenza in stile Jacques Demy su un’autostrada intasata, dove un coro multiculturale di abitanti di Los Angeles esce dai propri veicoli bloccati nel traffico e volteggia sui cofani come fossero cugini/e della costa occidentale dei ragazzi e delle ragazze di Fame. Intrappolati nella confusione soleggiata ci sono l’aspirante attrice Mia e il taciturno jazzista Sebastian, il cui clacson rompe la concentrazione di lei intenta a provare delle battute per un’imminente audizione. Una sera, loro ballano sotto la luce artificiale della luna cantando di come “non sei il tipo per me…non mi innamorerei mai di te”. Una delle sere successive Sebastian porta Mia a vedere Gioventù Bruciata al Rialto e lei gli insegna come restare fedele ai propri sogni. “Città di stelle, stai brillando solo per me?”.
Girando spesso i numeri musicali con piani sequenza (la ripresa iniziale ricorda e rivaleggia con quella di The Player), Chazelle si basa sulle acrobazie visive di Whiplash: la macchina da presa di Linus Sandgren che si muove, devia, volteggia e vola sui personaggi. A volte, La La Land assomiglia all’anello mancante tra lo scricchiolio nostalgico del musical retrò di Woody Allen Everyone Says I Love You e la fluidità futuristica dell’avventura fantascientifica di Alfonso Cuarón in Gravity. I colori esplodono in una sinfonia di toni accesi, mentre le location di Los Angeles combinano le scelte intelligenti di Jim McBride di Breathless con gli strani misteri notturni di David Lynch – citando capisaldi di Hollywood come Summer Stock e opere come Beau Travail per “realizzare un film che abbracciasse la magia dei musical, ma la radicasse nei ritmi e nella trama della vita reale”.
Musical: una reinvenzione contemporanea

Il musical è un genere dalla forte connotazione storica: la prima, vera opera fu The Jazz Singer (1927), che crebbe di popolarità tra la fine degli anni ‘30 e la metà degli anni ‘60. Il musical è riuscito a prosperare quando il mondo affrontava grandi pericoli: film come The Wizard of Oz, Singin’ in the Rain e Meet Me in St. Louis rappresentavano un rifugio sicuro dalle dure realtà politiche e militari dell’epoca. La funzione di La La Land non è diversa: il fatto che sia un prodotto che guarda fortemente indietro è palese, ma ignorare la sua contemporaneità sarebbe come valutare Il Padrino solamente come un film d’epoca e non come una reinvenzione epica del genere gangster.
La La Land è proprio questo: una reinvenzione contemporanea del musical. Prende spunto da New York, New York – altra opera che sembra parallela alla caratterizzazione e alla vita tematica di La La Land. La sequenza di apertura è un chiaro esempio di come il film attinga tantissimo a un certo cinema di Hollywood: Another Day of Sun è magnificamente eseguita da una schiera di cittadine/i di Los Angeles bloccate/i nel traffico che passano in modo netto e repentino dalla noia al canto.
Mentre per un film di un altro genere un non-naturalismo così brusco non sarebbe consentito, qui non avremmo immaginato la scena in nessun altro modo. Another Day of Sun richiama le meraviglie uniche di un certo tipo di messa in scena musicale intrecciandole all’impronta indelebile del presente: la melodia pop contemporanea e gli spunti visivi forniti da Chazelle evidenziano la sua intenzione di fondere il vecchio e il nuovo – dallo stile dei personaggi alla visione della città stessa.
Il genere più veritiero

Il contenuto effettivo delle strofe, nessuna più appropriata di “It’s another day of sun”, è un incoraggiamento esplicito a cogliere ogni attimo della propria vita. Chazelle però è anche schietto nell’impregnare il film di retrospezione cosciente. In tal senso, l’incontro tra Mia e Sebastian è decisamente classico: la sua dinamica non è molto diversa da quella di Anne (Audrey Hepburn) e Joe Bradley (Gregory Peck) in Vacanze Romane, o persino di Sandy Olsson (Olivia Newton John) e Danny Zuko (John Travolta) in Grease. Allo stesso tempo, La La Land è molto ancorato a un contesto contemporaneo, affronta l’incertezza e la turbolenza delle relazioni del ventunesimo secolo portando in scena il difficile equilibrio tra ambizione professionale e relazionale.
Il musical è il genere più vicino al cinema puro: è uno spettacolo totale in cui c’è racconto, immagine, suono, musica, danza, recitazione. È il trionfo dell’artificio che, più di altri generi, può permettersi di fare ciò che vuole. Piuttosto che al dialogo, ci si affida alla musica per rappresentare storie, emozioni e sogni – che del Cinema sono materia primaria. Spesso liquidato come un genere convenzionale e insipido, il musical cinematografico è in realtà una forma radicale che infrange ogni struttura narrativa tradizionale. Come ha detto il regista a John Powers di Vogue:
“I musical sono in un certo senso il genere più veritiero perché sono emotivamente veritieri. Riguardano come il mondo ci fa sentire, non come è realmente.”
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