Qui al Lido di Venezia lo avevamo salutato su un treno. Pino Daniele in sottofondo, un monacello a benedirne il viaggio, tanti pensieri lanciati fuori dal finestrino e l’amata Napoli ormai alle spalle. Nel bellissimo finale di È stata la mano di Dio il giovane Sorrentino partiva verso Roma e a Roma, ora, è tornato. Questa volta non per celebrare bellezze, ma per raccontare dubbi. Per immergerci nel cuore turbato di un uomo divorato dal passato. Immobile nel tempo mentre il suo tempo sta finendo.
Lo fa mettendoci nei panni di un Presidente della Repubblica ormai alla fine del suo mandato. Gli sgoccioli di una carriera e di una vita che si trasformano in un intricato labirinto di dubbi, dilemmi morali e immancabili malinconie. Di questo parla La Grazia, il nuovo film di Sorrentino che ha appena aperto (in concorso) la Mostra del Cinema di Venezia 2025. Ed eccoci qui a raccontarvi quello che abbiamo provato davanti a uno dei film più intimi e teneri del regista napoletano.
Cemento Amato

Sulla scrivania di Mariano De Santis , grande giurista noto come Cemento Armato (per il suo carattere imperscrutabile), ci sono due fascicoli sottili ma pesantissimi. Sono due richieste di grazia. Un uomo e una donna colpevoli di omicidio che, forse, meritano il perdono. Il tutto mentre questo anziano signore, nei suoi ultimi mesi da Presidente della Repubblica, deve decidere se approvare o meno una legge sull’eutanasia. Scelta delicata, ancora di più se messa sulle spalle di un cattolico amico del papa. Sono giorni pesanti, assillanti, difficili, che Sorrentino racconta dentro le stanze di un potere che appassisce. La bellezza di Roma rimane fuori dalla finestra, al massimo sbirciata sui tetti dove si fumano di nascosto sigarette proibite per tornare a respirare un attimo.
La Grazia è un film ambientato tra quattro mura. Un film di pensieri intricati e tante, tante parole. Un film difficile da incasellare in un genere, perché al fianco del dramma sentimentale c’è anche un pizzico di thriller e l’immancabile sarcasmo verso il mondo politico che ogni tanto ritrova il guizzo de Il divo (ma con un montaggio molto meno ritmato e più compassato). Questa volta, però, non c’è mai grottesco. Il Presidente di Toni Servillo è un uomo credibile, posato, che (si) racconta con i respiri e gli sguardi. È un giurista a metà strada tra la Prima e la Seconda Repubblica, un mix tra Cossiga e Mattarella, un personaggio totalmente fuori dai nostri tempi. Perché è un uomo che si permette il lusso di pensare, riflettere, ponderare ogni mossa. Forse anche troppo. Visto che la vita non si pensa, ma si vive. E chi pensa troppo, a volte, non vive mai davvero.
L’amore è una clessidra

Al di là dell’etica, della morale, della verità e della Giustizia, La Grazia è soprattutto una storia d’amore. Un amore dolce e tenero solo in apparenza, perché consuma, infesta, immobilizza. Sorrentino lo rende molto simile a una clessidra dorata, dove i granelli cadono inevitabili e dove un uomo rischia di soffocare dentro le sue sabbie mobili. Perché il tempo passa, gli amori vanno via, ma l’Amore resta comunque. E anche Mariano De Santis resta. Inamovibile e ostinato. Come il cemento armato. Nel suo cuore vecchio, ma non ancora stanco, brucia il ricordo di una moglie che non c’è più. Una donna che si è radicata dentro come fanno i dubbi più atroci.
Senza mai calcare troppo la mano sullo strazio del dramma, Sorrentino mitiga questo sentimento di dolorosa malinconia con un sarcasmo intelligente, spingendo tutti i suoi protagonisti a liberarsi dal passato, ad andare avanti, a fregarsene nella tradizione e delle regole. Nonostante qualche calo di ritmo, La Grazia è un film che smuove e parla alla gente. A tutti noi che non siamo il Presidente della Repubblica, ma che ogni tanto dovremmo solo imparare ad amarci di più. A vivere di più – senza farci fottere dalla nostalgia di chi non c’è più.