Sono a Cannes per la diciannovesima volta. E ogni volta, puntualmente, nei giorni prima di partire, arriva la stessa domanda: “Ma servono ancora i festival?”. Una domanda legittima, che si insinua non solo tra chi li guarda da lontano, ma anche tra chi li vive da dentro, ogni anno. Da giornalista, da critico, da semplice spettatore con il badge al collo e la sveglia all’alba per accaparrarsi un posto in proiezione.
Per molto tempo ho sempre risposto a chi me lo chiedeva – a partire dal mio ex editore, che ogni anno avrebbe voluto tagliare il budget eventi e trasferte – che partecipare a un festival internazionale come Cannes, Venezia o Berlino equivale a un vero e proprio “corso di aggiornamento” per chiunque scriva o si occupi di cinema. E questo rimane certamente vero, anche oggi. Così com’è vero che, da un punto di vista editoriale, seguire un festival così importante ti permette di conoscere in anticipo i film (e gli attori e registi) più premiati e chiacchierati dei mesi successivi.
Altrettanto vero, però, è che l’editoria stessa sta profondamente cambiando. La critica tradizionale sembrerebbe aver perso quasi del tutta la sua influenza – e una rivista di cinema, anche la più prestigiosa, oggi ha sempre meno rilevanza. Per questo il discorso di cui sopra resta valido, ma fino a un certo punto. I costi sono sempre più alti, così come il tempo da dedicare alle kermesse: tutto decisamente sproporzionato rispetto ai risultati ottenuti.
Quindi sì, la domanda è assolutamente legittima, tanto che da tempo sono io stesso a pormela, ogni anno, prima di intraprendere un nuovo viaggio. Eppure, anno dopo anno, la mia risposta non cambia.
Perché la verità è che sì, i festival servono ancora – anche se, molto probabilmente, non servono più a quello per cui erano stati pensati all’inizio. E forse proprio per questo, oggi, sono più interessanti di quanto vogliamo ammettere.
Una storia che cambia: da scoperta a strategia

Una volta, i festival erano il luogo della scoperta. Dell’inaspettato. Della sorpresa pura.
Il mito del film visto per caso che ti cambia la vita non è solo una leggenda da cinefili romantici: è successo a me, come a tanti colleghi. C’era il gusto del rischio, il piacere di entrare in sala senza sapere nulla, se non il nome del regista e il titolo stampato sul catalogo. E poi magari uscivi con le gambe tremanti, quasi incapace di credere a quello che avevi appena visto. Con una voglia matta – anzi, una vera e propria necessità – di trasmettere quelle sensazioni a più gente possibile.
Oggi è più raro. Non impossibile, ma raro. Molti film arrivano con una storia già “scritta”: con le vendite internazionali e le piattaforme, i festival sono diventati anche (e soprattutto) strumenti di posizionamento. Un film selezionato a Cannes, Berlino o Venezia entra in una traiettoria precisa. È parte di un piano di lancio. Si muove in una logica di branding e strategia. Persino il concetto stesso di “selezione” è cambiato: è un processo negoziale, in certi casi geopolitico, quasi mai neutro, raramente meritocratico.
Non si tratta di criticare o essere nostalgici: è semplicemente un dato di fatto. Perché i festival non sono più dei palcoscenici puri. Sono piattaforme di comunicazione globale, con i propri linguaggi, le proprie agende. Eppure, continuano a offrire un punto di vista. Una lettura. Una narrativa possibile sul cinema contemporaneo.
E questa narrativa, anche quando è parziale o imperfetta, è comunque preziosa.
L’altra funzione: festival come specchio del mondo

C’è una cosa che forse i festival fanno oggi meglio di ieri: riflettere il mondo.
Le grandi rassegne internazionali sono diventate – a modo loro – strumenti di osservazione politica e culturale.
Guardate una qualsiasi selezione ufficiale e leggetela come se fosse una mappa: troverete conflitti, tensioni sociali, rivendicazioni, inclusioni e omissioni. Non è più solo questione di contenuti (e nemmeno più solo dei nomi in lista): è una questione di presenze e assenze – chi viene invitato e chi no, chi può raccontare la propria storia e chi resta fuori.
Quando un film palestinese, ucraino o iraniano viene selezionato in concorso, non è solo una scelta artistica: è una presa di posizione. Così come l’eventuale assenza di altre cinematografie. Quando una regista donna apre il festival, o una giuria è guidata da una figura LGBTQ+ o attivista, è una scelta che parla al mondo. Non sempre lo farà bene, certo. Ma comunque lo fa. C’è un rischio sempre più evidente di spettacolarizzazione dell’impegno, anzi di un impegno a tempo determinato, filtrato da logiche di consenso. Ma resta il fatto che il festival è uno spazio dove certi discorsi prendono forma, diventano visibili, generano dibattito.
È un laboratorio, spesso contraddittorio, dove si intrecciano linguaggio artistico, identità e politica. E dove ogni film può diventare uno statement, anche suo malgrado.
Lo spettacolo dei festival: tra evento e illusione

Parliamoci chiaro: oggi, un festival è anche – e talvolta soprattutto – spettacolo. Cannes, come Venezia, come Toronto o Berlino, è un evento mediatico prima ancora che cinematografico. Red carpet, outfit virali, flash impazziti, influencer in cerca della posa giusta. Un tempo il glamour era un contorno. Ora sembra essere il piatto principale. C’è chi lo critica, chi lo cavalca, chi lo ignora, e poi c’è chi – come il sottoscritto e tanti altri che in questo “baraccone” ci lavorano – lo accetta come “male necessario”. Perché non è solo folklore, è parte integrante del meccanismo. È ciò che permette al festival di esistere in un mondo dominato dall’immagine. La narrazione passa attraverso i media, TikTok, Instagram, le stories dei giornalisti e dei creator.
Oggi un film può essere raccontato anche senza essere visto. E sì, è inquietante, ma anche questo – piaccia o no – è cinema, nel 2025. Sotto tutta questa superficie, però, c’è ancora qualcosa che pulsa. Le sale buie esistono ancora. Esistono i corpi che si fermano, che guardano. Esiste la fatica, la fame, il sonno, il desiderio. Esiste ancora il gesto antico di alzarsi alle 6 del mattino per vedere un film in una lingua sconosciuta. Esistono gli applausi spontanei, le lacrime vere, le reazioni incontrollate. E anche solo questo, lasciatemelo dire, è già una risposta alla domanda iniziale.
Il cuore segreto del festival

La verità è che ci sono due festival: quello che vedete nelle foto e quello che succede nei corridoi, nelle code fuori dalle sale, negli sguardi tra colleghi che si chiedono: “L’hai visto quello delle 9 alla Quinzaine?”. È lì che si misura la vitalità di una manifestazione. Non nei lustrini o nelle superstar, ma nei film “piccoli”, nei debutti timidi, nei titoli senza distribuzione che magari ti porti dietro per mesi. Il festival, al netto delle sue derive, è ancora un luogo di incontro. Tra chi fa, chi scrive, chi guarda.
E quindi sì, i festival servono ancora. Non più per scoprire il nuovo Fellini, forse. Non più per dare senso all’intera stagione cinematografica, come accadeva una volta, ma per dare spazio alla complessità. Per offrire un tempo sospeso in cui parlare (davvero) di cinema. Perché per dieci giorni, in quei luoghi, il cinema è ancora importante: è il centro, non la periferia. È argomento di discussione, non solo di consumo.
E anche se spesso sembrano illusioni, anche se il sistema può essere opaco, anche se tutto corre troppo veloce…
Quei dieci giorni servono. Servono a chi fa film. Servono a chi li ama. Servono a chi vuole ancora credere che ci sia qualcosa di più, oltre il contenuto da scrollare. I festival non sono più quello che erano. Ma se continuiamo ad andarci, a parlarne, a viverli, è perché – in fondo – ci crediamo ancora. E a volte, credere in un’illusione è l’unico modo per tenere viva la realtà.