1973, Festival di Cannes 26, première de La grande abbuffata di Marco Ferreri: il pubblico reagisce violentemente con fischi e sputi verso il cast e il regista, che reagisce con fare provocatorio mandando baci alla platea di spettatori inferociti. “Giornata degradante per il Festival, umiliazione per la Francia, vergogna ai produttori e agli attori” fu il giudizio perentorio della stampa del giorno dopo.
“Sporco. Digustoso. Degradante. Comico. Grottesco. Burroso. Volgare. Buffo. Imparziale” sono alcuni degli aggettivi che compaiono in sovrimpessione del trailer che presenta la versione restaurata de La grande abbuffata, in sala dall’11 dicembre. Realizzata dalla Fondazione Cineteca di Bologna e Citè Films con il sostegno di Cnc – Centre national du cinéma et de l’image animée, presso il laboratorio Immagine Ritrovata, la nuova versione in 4k reintegra 8 scene censurate (5 minuti totali) e riporta il film al suo splendore visivo originario. Cosa rende La grande abbuffata uno dei film più controversi del cinema italiano e internazionale?
La grande abbuffata: trama e cast
La grande abbuffata è un film totale, sfrenato. L’opera di Ferreri è rapace e ingorda nel suo fagocitare tutto, a partire dai confini tra cinema d’autore e commedia “bassa”. Confini che cominciano a sfumarsi già nei volti e nei nomi dei quattro attori protagonisti: Marcello Mastroianni, Ugo Tognazzi, Philippe Noiret e Michel Piccoli. Attori simbolo di una fetta ampia di cinema, dalla commedia all’italiana al cinema autoriale dei Fellini e dei Godard, si calano come personaggi del dissacrante mondo di Ferreri mantenendo i loro nomi di battesimo. Marcello, Ugo, Philippe e Michel: quattro macchine fisiologiche che, prima di avere dei sentimenti, hanno delle necessità, come descritti dallo stesso regista.
Quattro amici benestanti che si riuniscono nella villa di uno di loro (dove un tempo soggiornò il poeta Boileau) per consumare un suicidio gastronomico: mangiare senza mai smettere, fino alla morte. A loro si uniranno alcune prostitute e Andréa (Andréa Ferréol), una maestra elementare che passa per caso con la sua scolaresca nei pressi della villa. Il banchettare fino alla morte dei quattro personaggi ha un qualcosa di ritualistico nel suo ripetersi fino allo sfinimento: ma è un rituale svuotato di ogni sacralità e spiritualità: al centro c’è solo la carne che consuma sé stessa, alienata dal mondo e disconnessa da ogni forma vitale, così immersa nei suoi bisogni fisiologici primari da sprofondare nell’annichilimento.
La feroce critica sociale de La grande abbuffata
La grande abbuffata è un susseguirsi e accavallarsi affannoso di gag indecenti, scene scabrose e grottesche e simbologie stratificate. Questo flusso ininterrotto e nauseabondo, scandito dall’alternarsi tra cibo, sesso, voltastomaco e ancora cibo, restituisce la caduta verso la degradazione dell’uomo moderno della società dei consumi, dove anche l’atto naturale, gioioso e conviviale del mangiare diventa un inno funereo. Se tu non mangi non puoi morire ricorda Ugo a Michel, in una battuta che contiene il rovesciamento dei simboli su cui si basa il teorema de La grande abbuffata. Ferreri prende lo specchio cinematografico e lo pone di fronte alla società di inizio anni Settanta: una società sazia e al tempo stesso insoddisfatta, in preda alla nausea causata dalla sua stessa ingordigia, fatta di uomini che rincorrono il profitto e il successo a discapito della vita umana e dominata da una borghesia senza identità nè valori. Tutto è ridotto al minimo: mangiare, orinare, defecare, fare sesso, morire.
Ma in questo susseguirsi di atti mostrati nella loro più corporea oscenità non rimane più niente di umano o vitale: c’è solo la degradazione, l’abiezione e la negazione. Il regista stesso parla del valore che l’atto di mangiare assume ne La grande abbuffata in un’intervista del 1974 di Paolo Mereghetti per Cineforum :
Nel mio film il mangiare diventa l’ultima speranza, e disperazione, che sia presente davanti agli uomini. Più che dei significati metaforici particolari ho voluto rappresentare come davanti a uno specchio dei personaggi della nostra società: sono stanco dei film sui sentimenti, come La cagna, ed è per questo che ho voluto fare un’opera fisiologica. È proprio questa la parola esatta, perché solo così si può capire appieno il valore della mangiata (molto più che del cibo in sè), che diventa allora l’ultima certezza di questa vita. Facciamo un po’ vedere alle persone il loro lato materiale, fisico, senza tanti sentimenti adatti solo a nascondere la vera realtà, quella del corpo. Bergman è un signore dei sentimenti, anche i miei vecchi film erano pieni di questi maledetti sentimenti: ora è tempo di ritornare all’uomo come animale fisiologico. Non al corpo come realtà edonistica, ma come unica, tragica realtà di questa vita.
Cinico, disilluso, feroce: La grande abbuffata mette in scena, come uno specchio che riflette e deforma al tempo stesso, la sfilata macabra di una società al tramonto. E lo fa senza porre nessuna distanza intellettuale, ma parlando direttamente allo spettatore, coinvolgendolo con fare brusco, costringendolo a convivere con il soggetto che sta guardando. Come sarà recepito dal pubblico di oggi, a 50 anni di distanza? Non ci resta che attendere per scoprirlo.
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