Estate. Fine anni Novanta. In una baita di montagna c’è un signore che ha bisogno di rilassarsi. Ha passato una vita intera seduto alla scrivania a disegnare storie, e lo ha fatto con una dedizione quasi maniacale. Il signore ha ormai 60 anni e inizia a capire che il perfezionismo ha un costo. Per questo ogni tanto la sua mente cerca ossigeno e riposo. Solo che quel signore non riesce proprio a smettere di lavorare. Perché il suo lavoro è immaginare di continuo. Allora durante una vacanza in montagna, quel signore meglio noto come Hayao Miyazaki si fa ispirare da una bambina di 10 anni. È la figlia di Seji Okuda, produttore e grande amico del sensei. In una fatidica estate passata assieme a lei capisce che le bambine della sua età non hanno storie che le rappresentino così come sono.
Non principesse, non eroine, non maghe ma soltanto bambine. Imperfette, capricciose, semplici bambine. Da quella semplice intuizione nasce La città incantata. Il film d’animazione che ha cambiato tutto e tutti. A partire dalla sua Chihiro, che dopo aver visitato quel posto pieno di incubi e meraviglie non è più tornata quella di prima. E visto che La città incantata riapre le porte tornando al cinema dal 1 al 6 luglio, cerchiamo di capire perché anche l’animazione da quell’estate in montagna non è più stata la stessa.
La bambina incastrata
La storia di Chihiro inizia sbagliando strada. Come si fa in tutte le avventure in cui bisogna perdersi per ritrovarsi. Ancora una volta Hayao Miyazaki si affida allo sguardo femminile per guardare il mondo. Solo che questa volta gli occhi della bambina guardano cose mai esplorate nel suo cinema. Ed è la prima rivoluzione silenziosa di un film simile a nessun altro. Perché se Il mio amico Totoro aveva dato libero sfogo all’ingenuità della fanciullezza, La città incantata racconta un’età particolare. Quella a metà strada tra il non più e il non ancora. Perché Chihiro non ha più la spensieratezza dell’infanzia (il trasloco che apre il film la sradica subito dal nido) e non vive ancora i turbamenti dell’adolescenza. Attraverso la bambina, Miyazaki si lascia alle spalle piccole maghe, grandi eroine e combattenti, dedicandosi a una persona normale, piena di difetti e di dubbi. Una persona in cui ti riconosci subito.
Perché Chihiro è incastrata in una terra di mezzo in cui siamo stati tutti. Un posto intimo. Ed è per questo che l’avventura deve essere sua e sua soltanto, con i genitori lasciati alle spalle, a ingozzarsi come maiali. Se gli adulti si fermano al mondo terreno degli istinti bassi, la bambina si fa ammaliare dall’immaginazione e varca la soglia di un posto incantato. Lo fa con una curiosità che si ha solo alla sua età. Con la sfrontatezza di chi ha più voglia di scoprire che paura di farsi male. Con quel senso di meraviglia che ti fa scottare senza preoccuparsi troppo del fuoco, del mostruoso e del diverso. Perché, in fondo, La città incantata restituisce alle fiabe quel tocco di inquietudine che le fiabe hanno sempre avuto. Attraversare la soglia, come in ogni grande storia, è l’inizio di un viaggio straordinario. Un viaggio di crescita, formazione e trasformazione fondamentale, che rende La città incantata un lungo rito di iniziazione in cui una bambina entra in città per poi uscirne ragazzina. E prima di questo film l’animazione non si era mai dedicata a un momento di vita così preciso, così breve e così fondamentale. Quello in cui ti stai trasformando in te stesso.
Un successo (un)anime
Ci sono film che lasciano il segno e film che aprono voragini. La città incantata ha fatto entrambe le cose, sollevando una tempesta dopo la quale niente è stato più come prima. Perché da quel fatidico 2001 in cui il film in Giappone incassò più di Titanic, entrando anche nei venti film preferiti di un certo Quentin Tarantino, La città incantata ha totalmente abbattuto pregiudizi e falsi miti. Il primo? Quello che concepiva l’animazione come un genere e non come un linguaggio. Con la sua storia universale, impreziosita da una tecnica animata sopraffina, La città incantata ha dimostrato a tutti che i film animati possono contenere generi e allargare gli orizzonti oltre lo sguardo dei bambini, perché sono capaci di parlare di chiunque e a chiunque. I cartoni animati non sono mai stati solo “roba per bambini”, ma La città incantata lo ha fatto capire a tutti urlandolo al mondo con gentilezza.
Se ci è riuscito è stato anche grazie all’eco mediatica di premi altisonanti come l’Oscar al Miglior Film Animato vinto nel 2003 (con buona pace de L’era glaciale, Lilo & Stitch e Il pianeta del tesoro), diventando il primo film animato giapponese a vincere una statuetta che Miyazaki non ritirerà mai. Perché dopo l’attacco degli Stati Uniti in Iraq, il sensei non voleva visitare un paese che ne stava bombardando un altro. Senza dimenticare anche l’Orso D’Oro al Festival di Berlino (mai successo a un anime). Da quel fatidico 2003 tutti i film di Hayao Miyazaki e dello Studio Ghibli sono usciti dalla nicchia in cui erano stati rintanati da sguardi miopi e si sono aperti agli occhi del mondo.
Lo hanno fatto usando Chihiro come testa d’ariete. La bambina che ha fatto scoprire a tutti quanta poetica bellezza si nasconde dentro castelli erranti, maiali aviatori e principesse indomite. Perché la sua storia piena di metafore era complessa e semplice allo stesso tempo, e soprattutto capace di parlare a tutti, creando per la prima volta un grande ponte che univa Oriente e Occidente. Cose che capitano quando certi film affondando dentro terreni che puoi trovare ovunque, simili a radici che toccano archetipi comuni a ogni cultura. Come la crescita, la corruzione umana, l’innocenza perduta e la paura di cambiare. Che è esattamente quello che ha fatto La città incantata: il film che ha cambiato tutto e tutti quelli che lo guardano ancora con occhi innamorati.