La sensazione è che il mondo stia aprendo gli occhi, mentre l’Italia deve ancora meritarsi di guardare: Alice Rohrwacher ha conquistato a suon di perle il pubblico internazionale più affezionato al cinema, facendosi strada anche fra i grandi autori della settima arte. L’aspetto più interessante della questione non è il fatto che ci stia riuscendo, ma come: la regista, appena arrivata su Sky con la sua opera più matura (La Chimera, per l’appunto), ha tracciato la strada verso la grandezza e lo ha fatto sottovoce. Prima con i cortometraggi, poi con l’exploit del meraviglioso Lazzaro Felice – un’opera troppo poco chiacchierata, ma che ancora brilla di luce propria. L’arrivo de La Chimera oltre la sala, già vista poco durante la sua (spregevole) distribuzione nei cinema nostrani, rappresenta forse l’occasione ideale per recuperare un’opera d’arte che brama di essere sentita, esperita in ogni sua parte.
Quando si parla dello stile della Rohrwacher non ci sono esagerazioni, e forse questo aspetto si riflette anche nel suo film: è la grazia a parlare, dentro e fuori dallo schermo, e sarà la grazia a condurre questo sguardo così internazionale verso altri mondi (di certo migliori del nostro). Perché Alice vive in bilico, tra quell’antico che la ossessiona con le sue fiabe eterne e quel nuovo che desidera trasgredire (o trasfigurare) il classico in suggestioni moderne. La Chimera trova spazio tra il disincanto e il conflitto: una favola di tombaroli, cimiteri e civiltà che si mescolano all’industria e al profano, generando visioni di rara bellezza che non possono esistere oltre l’opera, incatenate tra sogno e veglia. Alice sussurra, a volte in modo criptico e sottile, ma con la sincerità purissima di chi desidera soltanto raccontare.
Verso nuove forme
Guardare La Chimera è come guardare un quadro di cui non si percepiscono chiaramente le pennellate, attratti inevitabilmente dal cuore dell’opera e affascinati dal suo impatto. Sulla superficie, un uomo alla ricerca di qualcosa (forse qualcuno), incappato nei resti etruschi e a ogni scoperta “appeso” come l’omonima carta dei tarocchi; intorno, lievi suggerimenti esoterici che lasciano immaginare uno slancio sovrannaturale, tra i graffi e le cicatrici di un dolore evidentemente consumato. Nella forma, non mancano i riferimenti a Fellini, che soprattutto nel gioco dei non detti e l’alternanza dei formati (dai 16 ai 35 mm di pellicola) cattura lo sguardo, allontanandosi per qualche istante dal suo punto focale.
Più a fondo, invece, il sacro abbraccia il mistero e si crea la magia: ci sono tanti volti, alcuni di anime perdute, altri di uomini e donne che invece vivono e brillano nella loro danza dei rimpianti. E così tutto si fa allegoria, punta di un iceberg mai svelato: l’entrata nella tomba, loculo per antonomasia, diventa la porta verso il sogno e il mistero, punto di congiunzione che permette di scrutare qualcosa senza mai comprenderlo appieno. Del resto, dell’ineffabile possiamo soltanto tracciare la nostra interpretazione, e La Chimera in questo resta fedele allo stato dell’arte. L’Appeso, qui presente persino nella locandina del film, diventa probabilmente il mezzo attraverso cui delineare nuove forme, raggiungere altri mondi andando con coraggio sempre più lontani da ciò che si conosce.
Dalle forme alla sostanza
Proprio perché la voce di Alice spinge alla deriva, i sensi diventano fari attraverso i quali non perdere la bussola: ogni esperienza diversa dal reale è scandita con uno stile ben preciso, tanto allo sguardo quanto all’ascolto, permettendo a chi osserva di restare a galla senza cadere nell’oblio delle interpretazioni. In questo, la Rohrwacher sfrutta l’immediatezza per farsi sirena dello spettatore, chiamandolo alla realtà o attirandolo verso l’introspezione. Molti potrebbero descrivere l’esperienza de La Chimera come respingente, ma gli strumenti per lasciarsi trascinare in un’avventura memorabile ci sono tutti – e sono a portata di sguardo.
La Chimera costruisce la sua corrispondenza d’amorosi segni (o sogni) tra sguardi e parole che abbracciano passato, presente e futuro, ma che soprattutto stimolano la ricerca di risposte ai propri dilemmi. La pellicola crea uno spazio tutto suo tra vita e morte, malinconica e poetica nel suo tentativo di catapultare dentro ogni scena, oltre il tempo e lo spazio. E qui quel contrasto si fa prepotente, perché c’è un mondo che è rimasto indietro e che sembra non esser soffocato dal nuovo che avanza. Nel film della Rohrwacher c’è tantissimo spazio per i ricordi, quelli della vita contadina vissuta accanto ai “maledetti tombaroli”, ed è dal rapporto con la memoria che Alice raggiunge il suo messaggio ironico verso il futuro – la sua Chimera, per l’appunto.
L’arte dei legami spezzati
Quel passato immacolato, cristallizzato nella sua forma fissa, non è la fonte della nostalgia: è la testimonianza di un legame ormai spezzato, che a detta della Rohrwacher contemplava la comunione tra uomo, natura e mistero. La malinconia è quella dei legami perduti, come dimostra l’Arthur di Josh O’Connor, di quel vuoto che riecheggia dall’anima alla terra e porta tutti a cercare la propria, di Chimera. Perché il resto è tutto intessuto tra contrasti a cui tutti siamo abituati: gioia e dolore, gloria e orrore, vecchio e nuovo amore. Su uno dei tanti, però, quello dell’arte e della commercializzazione, si potrebbe aprire un capitolo a parte.
Perché La Chimera rappresenta più di ogni altra opera italiana contemporanea la differenza tra visione e consumo, espressa con l’audacia di chi nell’arte sa cercare risposte e nell’arte trova il modo di riconoscersi. Al netto di una complessità tematica o allegorica, c’è un’italianità piena di vita nel racconto della Rohrwacher. Un sentire che soltanto noi possiamo cogliere con il giusto trasporto, nonostante si faccia il possibile per trasmetterlo anche altrove, e in cui tutti potremmo trovare qualcosa di valore. Cosa fa l’arte, se non spingere a riflettere attraverso un’emozione? La Chimera di risposte non ne ha molte, ma di esperienze riempie un mondo: dietro lo sguardo sottile di un’autrice del genere si cela qualcosa che forse non possiamo ancora comprendere, ma che siamo sempre più curiosi di scoprire.
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