Il franchise de La Casa (Evil Dead) ha una storia tutta sua. Una trilogia “originale” creata da Sam Raimi composta da: un primo capitolo a budget pressoché nullo che è anche il film d’esordio del suo autore; un secondo episodio che è una sorta di strano ibrido tra sequel e remake; un terzo che rappresenta una folle e meravigliosa deriva fantasy-medievale. A questi vanno aggiunti un serioso remake del 2013 diretto da Fede Álvarez e una serie tv che ripescava le atmosfere di Raimi oltre all’iconico Ash Williams di Bruce Campbell. Per noi italiani, come se la faccenda non fosse già abbastanza complicata, si sommano tutti i sequel apocrifi prodotti alla fine degli anni ’80. In questo 2023 arriva un nuovo capitolo della saga. Stiamo parlando de La casa – Il Risveglio del male (Evil Dead Rise), di cui vi abbiamo già parlato nella nostra recensione.
D’altronde sono anni che vediamo riesumati vari franchise horror di culto, da Scream ad Halloween fino al recente Hellraiser. Inoltre siamo in un gran bel periodo per il cinema di genere al botteghino, un ulteriore segnale di come la settima arte sia viva e vegeta, come vi raccontavamo in questo editoriale. In questo caso non si tratta di un sequel diretto né di un remake, né propriamente di un reboot. La casa – Il Risveglio del male è piuttosto un film che racconta una storia parallela e indipendente a quelle viste fino a ora e che forse segue un altro dei tre Libri dei Morti trovati da Ash ne L’armata delle Tenebre. Ma d’altronde, come abbiamo visto e come vedremo più avanti, “timeline” e “continuity” non sono mai stati dei dogmi nell’universo e nella mente di Raimi. Possiamo quindi vedere con il giusto distacco l’opera di Lee Cronin, interpretandolo come un modo per riportare in auge il franchise, cercando di fare un semplice film di genere e di lavorare sulla grammatica cinematografica che stia a metà strada tra quella di Raimi e i paradigmi dell’horror contemporaneo.
Ecco, se “timeline” e “continuity” non sono rappresentativi della saga La Casa, lo stesso non possiamo dire della questione legata al linguaggio filmico.
Il linguaggio che diventa mito
Siamo nel 1981, Ronald Reagan è appena entrato alla Casa Bianca. Non si può ancora parlare dell’influenza del reaganismo sull’intrattenimento statunitense ma l’humus culturale che ha permesso la sua ascesa è già presente in tutto il Paese. Lo stesso anno esce il primo La Casa, un progetto dal budget e dall’approccio amatoriali. Come dicevamo nell’introduzione a questo articolo la trilogia di Raimi non ha una vera e propria continuity sensata e non punta sulla costruzione di una mitologia solida a cui affidarsi. Il Libro dei Morti, che poggia sulle basi del Necronomicon lovecraftiano, nel corso dei decenni è certamente diventato un simbolo della saga ma non è certo un villain alla Michael Myers. È il male assoluto, che di per sé vuol dire tutto e niente. In un panorama horror la cui riconoscibilità si basa su mostri e assassini come protagonisti, il fatto che l’unico personaggio ricollegabile istintivamente a La casa sia l’eroe (peraltro totalmente atipico) interpretato da Bruce Campbell, è già di per sé un contrassegno di unicità. Ma l’assenza di mitologia e di tratti narrativi tipici è proprio quella che ha consentito a Raimi di avere la libertà necessaria per poter dar libero sfogo al vero fattore distintivo che rende unica la saga: il suo linguaggio filmico.
Nel film del 1981 il regista, poco più che ventenne, sfoga tutta la sua creatività. Prende tecniche già note e utilizzate nella storia del medium, come la shaky cam o il dutch angle, e se ne appropria. Gli associa un significato tutto loro e specifico all’interno delle dinamiche del film, creando così la soggettiva del demone che sfreccia nel bosco o l’angolo sbilenco tipico di quando ci si trova davanti a un posseduto. L’uso degli effetti speciali dichiaratamente finti, i passaggi di toni dall’horror al melò, dal grottesco allo slapstick, dall’ironia alla vera e propria goliardia, concludono un percorso anarchico che porta Raimi a rifiutare l’horror formale di fine anni ’70 scegliendo una via propria e anticipando di fatto alcune tendenze all’esagerazione che contraddistingueranno il reaganismo e gli anni ’80. Un percorso poi continuato nel secondo capitolo e ne L’armata delle tenebre. Una deriva iconoclastica e parossistica che distrugge il concetto di mito attraverso il linguaggio con quest’ultimo che diventa a sua volta, ironicamente, mito. A nessuno è mai davvero interessata la storia de La casa ma come Raimi ce la mostrava.
Due strade differenti
Data la situazione e l’impronta indelebile data da Raimi al franchise, risulta evidente la difficoltà nel realizzare un nuovo film de La casa. Le strade percorribili da un regista sono in sostanza due: approcciarlo con il proprio stile oppure cercare di richiamare quello dei film originali. La cosa molto utile per noi spettatori e affamati cinefili è che, grazie al remake del 2013 e all’ultimo Il risveglio del male, possiamo vedere i risultati di entrambi gli approcci. Il film di Fede Álvarez manteneva invariate le premesse ma le portava in scena con grande formalità e un tono molto cupo e serio. Un’opera davvero quadrata, aggettivo che in effetti rispecchia l’approccio (o meglio ancora la “Garra Charrúa”) che ci si aspetterebbe da un uruguagio e che l’autore avrebbe portato poi avanti in opere successive come Man in the Dark. Il problema è che l’utilizzo di quel linguaggio applicato a La casa è parso come una sorta di restaurazione o, meglio ancora, una contro-rivoluzione. Un cortocircuito che ha portato a una conseguente polarizzazione tanto dei fan quanto della critica (ma ottimi risultati al botteghino).
Lee Cronin con La casa – Il risveglio del male ha scelto invece la via opposta. Cambia le premesse cercando di richiamare il linguaggio e il tono di Raimi. A questo aggiunge anche una discreta dose di citazioni a grandi horror americani e un, fin troppo urlato, amore per il genere. In quel cambio di premesse risiede probabilmente il punto più forte del film. Lo spostare l’ambientazione in una zona urbana, chiudendo un nucleo familiare (e non un gruppo di amici) in un appartamento, manda forti richiami da periodo pandemico alla memoria. Ma il film questa tematica e quella femminile le sfiora soltanto, rifuggendo l’etichetta “elevated” che tanto va di moda nell’horror e regalandoci un film di genere puro. Il problema che sorge in questo caso è quasi concettuale: ha senso prendere come riferimento il linguaggio di un autore che i riferimenti li ha sempre, per sua natura, rinnegati? Tra l’altro dopo Doctor Strange nel Multiverso della Follia, ovvero dopo che Sam Raimi ha replicato e a tratti scimmiottato se stesso. Anche in questo caso ci troviamo di fronte a un piccolo cortocircuito ma, a differenza di quello del remake, non voluto.
Il risultato è un film che funziona ma ha poca anima. La casa – Il risveglio del male sembra quasi un’opera le cui immagini escono da Midjourney. Sono esattamente quello che ci si aspetta ma manca qualcosa, quella scintilla data non dal calcolo matematico ma dall’intelletto e dallo spirito. Perché si può replicare, emulare, finanche rubare ma il linguaggio rimarrà sempre una questione del tutto unica e personale.
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