Tre film, tre successi commerciali, ma soprattutto tre brillanti esempi di come il cinema di genere possa ben coniugare originalità, impegno sociale e politico, in alcuni casi anche ironia e satira. Con Scappa – Get Out (per cui ha vinto anche un Oscar), Noi (Us) e ora questo Nope, Jordan Peele ha realizzato tre ottimi film in cui la tensione è sempre altissima, in cui gli elementi tipici di un certo cinema – horror, thriller, fantascienza, perfino western – sono sempre presenti e perfettamente funzionali alla trama. Eppure guardando i suoi film c’è la consapevolezza che oltre a quello che si può scorgere in superficie ci sia sempre molto di più. Tanto che anche a distanza di anni, più li (ri)guardiamo, più li analizziamo e più ci sembra di scorgere chiavi di lettura sempre diverse.
Grazie a questa sua profondità e sensibilità, Peele ha dimostrato di essere un autore a tutto tondo: non solo quindi, come si poteva erroneamente pensare all’inizio, paladino del cinema black e degli spettatori afroamericani; piuttosto un regista in grado di appassionare il pubblico di tutto il mondo grazie alle sue idee e al coraggio di esporle. Anche a rischio di “sputare nel piatto in cui mangia”, ovvero raccontare al mondo intero l’industria hollywoodiana in tutte le sue contraddizioni. In questo articolo proveremo proprio ad analizzare quello che è il rapporto di Jordan Peele con Hollywood e quali potrebbero essere, in questo senso, alcuni dei significati più nascosti del suo cinema e delle sue opere.
Seguono, ovviamente, spoiler su tutti e tre i film da lui diretti.
Scappa – Get Out: neri fuori, bianchi dentro
Partiamo ovviamente dal film del 2017, opera d’esordio per Peele che, fino a quel momento, era conosciuto principalmente come comico. Inutile stare qui a ricordare la premessa del film, andiamo direttamente al succo del discorso: nella parte finale della pellicola il protagonista interpretato dall’ottimo Daniel Kaluuya viene a conoscenza di questo rituale con cui generazioni di bianchi ricchi e potenti hanno trasferito la loro coscienza nei corpi inermi di persone di colore attraverso un trapianto di cervello. In questo modo non solo sono riusciti a prolungare la loro esistenza, ma hanno anche potuto usufruire delle qualità fisiche di questi uomini e donne di colore che hanno rapito nel corso degli anni.
Il concept è geniale e il film riesce sempre a tenersi in perfetto equilibrio tra horror e (black) comedy, pur trattando un tema serissimo come quello del razzismo endemico proprio degli Stati Uniti. Non deve stupire quindi l’enorme successo ottenuto da Get Out sia a livello di pubblico che di critica, così come la vittoria di molteplici premi, tra cui il già citato Oscar.
Lo sfruttamento della fisicità, del corpo degli afroamericani è un argomento certamente non nuovo, basti vedere la quantità di film, anche recenti, sulla schiavitù; ma mai questo argomento era stato affrontato in modo così brillante, e originale. E soprattutto mai era stato affrontato in modo così palese in un contesto come quello attuale, senza necessariamente andare indietro nel passato. Perché Get Out non parla solo della situazione dei neri nei secoli o nei decenni scorsi, ma denuncia, in maniera piuttosto forte, l’utilizzo che la stessa società capitalista americana fa oggi del corpo degli afroamericani. Perché non è solo uccidendolo a sangue freddo, come purtroppo succede ancora oggi anche da parte delle forze dell’ordine, che si compie una violenza: con la scena dell’asta silente, in cui questi ricchi bianchi si propongono di acquistare il corpo del protagonista, Peele non vuole forse farci pensare alle aste sportive in cui tantissimi giovani dal fisico perfetto vengono acquistati dalle potentissime società sportive americane? E pensiamo poi al concetto stesso di impossessarsi di questi corpi atletici, perfetti, per poi inserire all’interno il cervello di questi bianchi ricchi e potenti.
Non è forse quello che la stessa Hollywood ha fatto per tanto, troppo tempo, inserendo all’interno delle loro produzioni attori e attrici di colore facendoli però recitare e parlare attraverso sceneggiature quasi sempre scritte da bianchi? Da persone che non erano affatto consapevoli, e spesso nemmeno interessate, alla cultura black o al pensiero stesso di queste persone che in teoria avrebbero dovuto raccontare e rappresentare. Non ci è difficile immaginare che, nello scrivere di persone la cui coscienza è relegata sullo sfondo mentre è il proprio corpo è costretto a fare e dire cose che non gli appartengono, Peele si sia ispirato alle sue precedenti esperienze attoriali così come quelle di molti suoi amici e colleghi.
Tra l’altro, messa così, davvero non è difficile capire perché Peele sia letteralmente adorato da qualsiasi attore di colore contemporaneo. O del perché tutti vogliano lavorare con lui.
Noi (Us): apparire e scomparire
Andiamo avanti di due anni e arriviamo al 2019, anno di uscita del secondo film da regista di Peele: il bellissimo ed inquietante Noi (Us). Qui la storia è quella di una famiglia di colore molto benestante che si ritrova vittima di una famiglia di “doppelganger”, ovvero una versione più “sporca, brutta e cattiva” di loro stessi. Più andiamo avanti e più scopriamo che in realtà questi doppi, dei veri e propri cloni, sembrano esistere in tutta l’America: vivono nei sotterranei delle città e sono costretti per loro natura a ripetere, quasi fossero ombre, le stesse azioni che gli “originali” compiono sopra la superficie.
Inutile specificare che, soprattutto grazie al riuscitissimo twist finale, anche qui sono molteplici e tutte interessantissime le varie teorie e analisi che si sono susseguite negli anni e che fanno emergere, ad ogni visione, nuovi livelli di lettura.
Considerato però il sempre crescente interesse (che vedremo meglio con Nope) di Peele per l’aspetto metacinematografico, non possiamo che provare ad applicare anche a questo Us un ragionamento non troppo dissimile da quello fatto sopra per Get Out. È possibile, ad esempio, che anche con questo film Peele voglia raccontarvi di cosa voglia dire essere attori ad Hollywood? Prendiamo i protagonisti della storia, così come i loro amici: sono tutti ricchi, belli e felici, vivono in case meravigliose e hanno tutti i comfort, barca compresa. Potrebbero tranquillamente rappresentare delle famiglie composte da divi hollywoodiani. Pensiamo ora ai loro “doppi”, quelli che vivono sotto di loro, lontani dalla luce (della ribalta), nascosti e ignoti a tutti: il loro compito è quello di imitare in tutto e per tutto gli originali così da essere a disposizione nel caso fosse necessario sostituirli. Basta rifletterci un attimo per capire che in fondo nell’industria cinematografica esiste già un qualcosa di molto simile: le controfigure.
“It’s our time now. Our time up there. And to think, if it weren’t for you, I never would’ve danced at all.”
Ora non pensiamo che Peele si stia augurando (o tantomeno organizzando) una rivolta a Hollywood, ma è comunque bello continuare ad osservare nelle sue opere una certa attenzione per la parte più nascosta – ma non per questo meno importante – dell’industria.
Perché in fondo, per estensione, si potrebbe fare lo stesso per le moltissime maestranze che sono fondamentali per la riuscita di qualsiasi film ma la cui unica soddisfazione e visibilità è regalata “sotto”. Non sottoterra per fortuna, ma in fondo ai titoli di coda. Esatto, proprio quelli che quasi nessuno legge: il che li rende appunto nascosti e ignoti praticamente a tutti.
Nope: uscire dall’anonimato
Su questo stesso argomento, ma in modo ben più diretto e manifesto, si inserisce anche il terzo (e, per ora, ultimo) film diretto da Jordan Peele: Nope (2022) è stato annunciato e presentato come opera di fantascienza e per la prima parte sembra effettivamente voler raccontare una storia di UFO. Nella seconda metà scopriamo che non è esattamente così, quello che nei cieli si nasconde tra le nuvole non è un disco volante ma una creatura mostruosa, probabilmente di natura extraterrestre, che si ciba di esseri viventi. Volendo essere molto superficiali, si potrebbe dire che Nope, nella sua essenza, non è altro che una versione aggiornata, e piuttosto originale nonostante tutto, de Lo squalo di Spielberg o di un nuovo capitolo della saga di Tremors. Perché, in fondo, è anche questo. Ma come sempre capita nei film di Jordan Peele, più si va a fondo e più escono fuori temi interessanti, ed anche qui – come vi abbiamo già raccontato nella nostra spiegazione del finale – non mancano elementi di satira politica e sociale.
A differenza delle precedenti opere, però, l’elemento metacinematografico è qui esplicito fin dall’inizio, tanto è vero che il film inizia su un set televisivo su cui si è appena svolta una terribile tragedia e si conclude con una sorta di “remake” di quella che è considerata la prima inquadratura ufficiale della storia del cinema – l’esperimento fotografico di Eadweard Muybridge del 1878 che viene citato più volte all’interno del film. Peele inquadra il suo attore feticcio, lo stesso Kaluuya di Get Out, allo stesso modo, ma oltre 140 anni dopo; lo fa per chiudere il cerchio abilmente su quello che è stato il vero leitmotiv del film, non gli alieni, ma qualcosa di ancora più sfuggente, soprattutto in campo cinematografico: il giusto riconoscimento. Se già in Noi, come abbiamo detto, c’erano a nostro parere i presupposti per immaginare un Jordan Peele dalla parte delle “maestranze”, con Nope il regista non si fa problemi a mostrarci la lotta e la volontà di chiunque faccia parte dell’industria pur di poter uscire dall’anonimato e riprendersi ciò che gli spetta. E sembra dirci che a riuscirci sono non solo coloro che ci credono di più ma anche quelli che rispettano la vita e il lavoro altrui: tutti gli altri – chi per vanità, chi per ossessione, chi per negligenza e disinteresse verso gli altri – verranno semplicemente divorati.
Un’altra interessante osservazione che viene quasi spontanea riguarda invece il regista stesso: come abbiamo visto per ben tre film ha giocato con il genere ma soprattutto ha giocato con le aspettative del pubblico. Con Nope però sembra quasi voler ammettere questa sua (permettetecelo) “paraculaggine”, dicendoci a tutti che a lui degli alieni in fondo non è che fregasse granché. E forse nemmeno del mostro alieno volante. Ma così come i suoi protagonisti vogliono sfruttare quella scoperta per diventare famosi, Peele in qualche modo lo ha già fatto, il successo l’ha già avuto, grazie a degli horror che non sono veramente horror, ed ora un film di fantascienza che non è veramente un film di fantascienza. E allora perché Peele continua, e speriamo continuerà a lungo, a fare questi film così complessi e così ambiziosi? Perché non accontentarsi di fare un semplice monster movie e promuoverlo come tale? L’unica risposta che ci sappiamo dare è che Jordan Peele è come quel mostro nella nuvola: ci osserva paziente per poi cibarsi non dei nostri corpi ma delle nostre convinzioni, delle nostre aspettative. Della nostra visione del cinema tutto, non solo il suo. Il suo essere stato a lungo tempo nascosto, parte di una minoranza, gli ha permesso di capire e conoscere il sistema, mentre il potere e la notorietà acquisita ora gli permette di poter fare quello che vuole, come e quando lo vuole. Ma senza mai dimenticarsi di coloro che sono come lui e sono stati nella stessa sua condizione.
È in fondo quello che ci aspetteremmo dai protagonisti di Nope, non è vero? Andare da Oprah con la loro storia da raccontare, la loro foto da mostrare, per poi ritornare al loro ranch pronti a prendersi cura dei cavalli e dell’importante eredità del loro quadrisavolo. Ecco, Jordan Peele sta facendo lo stesso, ed è per questo siamo profondamente grati del suo cinema.
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