Ci sono volte in cui un Festival del Cinema riesce a sorprendere quando meno te lo aspetti. Non per forza con il capolavoro annunciato o con l’ascesa del grande outsider: certe volte basta la storia giusta al momento giusto. Noah Baumbach lo sa bene, ma da qualche anno subisce il peso di un’anima autoriale divisa a metà tra il la popolarità da streaming e l’intimismo delle sue sceneggiature. L’arrivo di Jay Kelly a Venezia 82 rappresenta una vera boccata d’ossigeno: nella sua opera più ambiziosa (per stile, mole produttiva e resa d’insieme) il regista costruisce intorno a George Clooney un’emozionante riflessione sul valore dell’identità.

Torna la famiglia dei legami spezzati, quella dei padri assenti e dei figli (s)perduti, ma ciascun particolare, ciascun personaggio diventa strumento per permettere al protagonista di guardarsi dentro. Raccontare dall’interno, in fondo, è il modo migliore per raccontare se stessi. Così Baumbach prende una star (dentro e fuori lo schermo) e la decostruisce partendo proprio dalla fragilità di un’esistenza sempre più effimera: il tempo scorre, i legami si fanno più complessi e vivere non può ridursi all’ennesima performance. Jay Kelly brilla quando è l’intimità a emergere, ma soprattutto quando è il Cinema a raccontare.

Un film di ricordi

George Clooney e Adam Sandler in una scena di Jay Kelly
George Clooney e Adam Sandler in una scena di Jay Kelly – @Netflix

Essere un attore non è mai semplice. Soprattutto quando non sei un attore come tutti gli altri. Jay Kelly è una personalità iconica: un uomo che attraverso la recitazione ha conquistato un piccolo spazio nelle vite di tutti, raggiungendo uno status difficile da eguagliare. Una di quelle che si potrebbero chiamare star persistenti: personaggi così conosciuti da essere spesso accusati di interpretare se stessi anche al cinema (vi ricorda qualcuno?). Tuttavia, anche le stelle più brillanti sono destinate a spegnersi all’ombra del tempo che scorre. Dopo una vita passata a interpretare qualcun altro, cosa resta quando non c’è più una parte da recitare?

Baumbach approfitta di un imponente Clooney per raccontare il conflitto di un uomo che non ha ancora capito quanto costa davvero essere se stessi. Un approccio che strizza l’occhio alla sua stessa realtà, con l’attore che accetta qualsiasi forma di autoironia per proporre un’analisi molto più accorata e intima di quello stardom che oltrepassa qualsiasi barriera.

Il Cinema come strumento di memoria

I miei ricordi sono tutti film.” -Jay Kelly

Sarebbe facile parlare di commedia, ma è il viaggio interiore del protagonista a prevalere sul road movie che porta l’attore e il suo team dagli Stati Uniti all’Italia. Pur soffrendo in alcuni frangenti (soprattutto nella sezione centrale), sono sempre i racconti emozionanti di Clooney a dominare la scena. Merito di uno script che ha trovato in Emily Mortimer una co-sceneggiatrice estremamente legata al sentire dei personaggi.

Oltre lo schermo

George Clooney in una scena del film
George Clooney in una scena del film – @Netflix

Per un Cinema che sa ancora farsi arte della finzione, l’attore è il great pretender per eccellenza. Cogliere la profondità di questo concetto è fondamentale per comprendere il valore della sceneggiatura del film. Quando fingere diventa sempre più difficile, ecco che il Cinema si trasforma e diventa strumento del racconto, arte del sogno. Con Jay Kelly, Noah Baumbach lega vita e settima arte in un labirinto di scelte e incroci: Jay Kelly e George Clooney sono due facce della stessa medaglia, astri lucenti di un’opera che semplicemente non poteva essere cucita addosso a qualcun altro.

In una parola, Jay Kelly sarebbe assimilabile a un film sulla performance – tema chiave anche nei frangenti più esistenzialisti. Nella parabola in cui protagonista del film e protagonista del racconto coincidono, Jay Kelly si muove oltre lo schermo: esasperata, a tratti ridondante nella sua costante ricerca di stimoli, l‘opera di Baumbach riporta il Cinema al centro in maniera inaspettatamente sincera – almeno emotivamente. Interpretare se stessi non significa solo accettare ciò che si è, ma accogliere gli spunti più istintivi per capirsi e crescere. Anche se significa lasciare indietro qualcuno. Anche se significa dimenticarsi di esistere per qualche istante e pensare solo a ballare, trascinati dalla musica.

J.K. (o G.C., a questo punto) non è altro che il riflesso di una storia d’amore – o meglio, di amori. Un’esperienza che racconta cosa significa innamorarsi – di ciò che si fa, e quindi di ciò che si è. Cronaca di una passione imprevedibile, ma così travolgente da spingere a voler rifare tutto da capo: vivere.

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Classe '94. Critico e copywriter di professione, creator per passione. Ha scritto e collaborato per diverse realtà di settore (FilmPost.it, Everyeye) con la speranza di raccontare il Cinema e la cultura pop per il resto della sua vita.