È stato presentato in anteprima nella sezione Special Screenings della Festa del Cinema di Roma il documentario Io, noi e Gaber, diretto da Riccardo Milani e promosso dalla Fondazione Gaber a vent’anni dalla morte del popolarissimo cantautore. Il film, al cinema il 6, 7 e 8 novembre, è dedicato al rapporto tra Giorgio Gaber – in qualità di artista, musicista, performer, intellettuale – e la società italiana lungo quattro decenni fondamentali per la storia del Paese, dalle rivoluzioni del ‘68 al berlusconismo.
Nella nostra recensione di Io, noi e Gaber approfondiremo il lavoro di Milani, corposo per argomento e per durata (il documentario supera le due ore, come già il precedente Nel nostro cielo un rombo di tuono su Gigi Riva), che sceglie la forma classica della raccolta di testimonianze ma fa due scelte cinematografiche nette e significative.
Genere: Documentario
Durata: 135 minuti
Uscita: 6 novembre 2023 (Cinema)
Cast: Claudio Bisio, Francesco Centorame, Ombretta Colli, Ivano Fossati, Dalia Gaberscik, Ricky Gianco, Gino & Michele, Paolo Jannacci, Lorenzo Jovanotti, Mogol, Vincenzo Mollica, Gianni Morandi, Massimiliano Pani
Non un documentario biografico
Io, noi e Gaber non è una biografia, ma preferisce concentrarsi sul contributo culturale che Giorgio Gaber diede all’Italia dagli anni 60 (la rottura operata nel settore musicale insieme a Mina, Adriano Celentano e Enzo Jannacci) fino alla sua morte giunta nel 2003 e che trova compimento col titolo del suo ultimo album, che esce postumo. Un titolo forte, polemico, addolorato: Io non mi sento italiano che simboleggia quella difficoltà di stare al passo coi tempi, e di capirli, già da lui espressa nella celebre satira di Destra-Sinistra (1994) e nel lucido disagio di La razza in estinzione, dall’album La mia generazione ha perso (2001).
Lo sguardo del regista si tiene a rispettosa distanza dalla vedova Ombretta Colli, non fruga nel privato e affida alla figlia Dalia i pochi cenni essenziali sulla vita familiare di Gaber, nato Giorgio Gaberščik a Milano nel 1939. Preferisce, invece, dare ampio spazio alla città di Milano, che è stata così centrale nella poetica dell’artista, con riferimenti puntuali a nomi, luoghi, modi di dire. La milanesità delle canzoni di Gaber dimostra come la via più autentica per l’universalità stia spesso nella specificità: cantare del bar Giambellino di Milano (La ballata del Cerutti, 1961) o del bar Casablanca di Viareggio (Al bar Casablanca, 1972), permette di entrare in connessione con chi quei luoghi li conosce, ma anche l’immagine evocata nella mente di chi non ha mai frequentato quei bar sarà comunque un’immagine giusta.
Il medium cinematografico si dimostra adatto per celebrare e analizzare le qualità performative dell’arte di Gaber: allo stretto rapporto tra scrittura, interpretazione vocale e corporea che caratterizza il cosiddetto “teatro canzone” inventato con il co-autore Sandro Luporini, il documentario dedica un ampio capitolo, soffermandosi sulla struttura dei testi e la scelta delle parole. Cosa significa davvero “partecipazione” nei versi di La libertà?
Il documentario come esercizio di partecipazione
Io, noi e Gaber: fin dal titolo, il film di Riccardo Milani ci chiama appunto a una partecipazione attiva e dialettica. Nei confronti dell’artista, ma anche nei confronti di chi, in questo documentario, ce lo racconta: le talking heads sono volti molto noti (Gianni Morandi, Mogol, Vincenzo Mollica, Fabio Fazio, Claudio Bisio, Jovanotti, Pier Luigi Bersani…) ma non vengono etichettate col tipico nome-e-cognome in sovrimpressione.
L’elenco dei partecipanti compare solo sui titoli di coda, ma lungo tutta la durata del film li ascoltiamo parlare come semplici persone e come cittadini, staccati dal ruolo o dalla professione che li rende famosi. Da spettatori è un esercizio utile, perché ci mette in condizione di cogliere riflessioni e riconoscerle come interessanti anche da personaggi che magari non amiamo particolarmente, o che non avremmo preso in considerazione al di fuori del documentario.
Una traduzione in forma cinematografica, tanto semplice quanto efficace, del concetto di strada cantata da Gaber, che è arricchimento nato dal confronto faticoso con altri esseri umani, a prescindere dalle contraddizioni e dagli inciampi che fanno parte della vita di ognuno: «La strada è l’unica salvezza / C’è solo la voglia e il bisogno di uscire / Di esporsi nella strada e nella piazza / Perché il giudizio universale / Non passa per le case / Le case dove noi ci nascondiamo / Bisogna ritornare nella strada / Nella strada per conoscere chi siamo».
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La recensione in breve
Io, noi e Gaber evita la banale biografia e racconta con efficacia il contributo culturale dato da Giorgio Gaber alla società italiana dalle rivoluzioni del '68 agli anni del berlusconismo, chiamando noi spettatori a un esercizio di "partecipazione"
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Voto ScreenWorld