Una manciata di primissime anteprime in altrettante poche città e contee del Wisconsin e del Massachusetts, lontano dai riflettori di Los Angeles e New York. Un’attrice, Judy Garland, che a 16 anni aveva già sulle proprie spalle buona parte del peso dello star-system hollywoodiano. Quattordici sceneggiatori, quattro registi, un produttore visionario. L’esplosione del Technicolor e del cinema a colori. Un paio di incidenti potenzialmente mortali sul set e un cast esasperato da mesi di riprese tostissime, consumato dal caldo delle luci di scena e da costumi da 40 chili. Ma anche il proto-fantasy, un comparto tecnico rivoluzionario e tutto il potenziale immaginifico dei successivi otto decenni di cinema d’evasione americano.
Green Bay, città da 100mila abitanti situata a 200 chilometri da Milwaukee e porto della baia omonima del lago Michigan, ospitò la primissima de Il mago di Oz in seguito a una campagna promozionale da 200mila dollari. Era il 10 agosto 1939, 85 anni fa. La Green Bay Press-Gazette annunciò la notizia il giorno stesso con enfasi. Fu poi il turno di Appleton e Oshkosh, l’11 agosto, tra le poche città selezionate per una premiere esclusiva come anticipato dal Post Crescent in un articolo uscito sei giorni prima. Oconomowoc, scelta dalla MGM per il 12 agosto, ancora oggi fa di questa occasione speciale ragione di vanto cittadino – per il 6 settembre è prevista la celebrazione di questo 85esimo anniversario.
Dai laghi del Wisconsin fino a Cape Code nel Massachusetts, molto pù a est, uno dei film più importanti di sempre si affacciava alla stampa e ai primi spettatori. Non Los Angeles, che avrebbe ospitato la prima solo il 15 agosto, neanche New York il cui turno sarebbe stato il 17, e neanche il Kansas – terra di tornado e campi di mais in cui il film è parzialmente ambientato. Il mago di Oz uscì nelle sale il 25 agosto 1939. In Italia sarebbe arrivato solo nel 1947.
Un film universale
Il giocattolo della MGM fu un successo immediato. Non tanto per l’incasso da 16/17 milioni (non pochi soldi per l’epoca), ma soprattutto per quei semini di modernità che l’opera tratta dal classico letterario di L. Frank Baum fu fin da subito in grado di piantare nel cinema statunitense. Il potenziale filmico era al massimo: c’era una struttura narrativa semplice quanto universale, un setting fantasy che sarebbe rimasto il modello di riferimento per i successivi decenni, un viaggio eroico che simboleggiava la ricerca di se stessi e una profondità tematica immischiata a una apparente superficialità degna della Hollywood meno impegnativa. E un messaggio molto semplice: il cinema è prima di tutto cultura popolare massiva e forma di intrattenimento scanzonata (e, spesso, furba se non anche cinica).
Il mago di Oz fu un’esplosione pastello di canti e arcobaleni, dipinto dal Technicolor che all’epoca stava rivoluzionando il cinema. Tutt’ora è anche la dimostrazione che, a volte, tendiamo a esagerare con il culto dell’autore: il punto della pellicola – cioè una delle migliori di sempre – non è di certo in uno dei numerosi registi o sceneggiatori che vi hanno fatto parte. È piuttosto la visione produttiva e commerciale della MGM e di Marvin LeRoy, producer che con poche giuste intuizioni rese possibile il tutto. Poco importa se George Cukor prima e Victor Fleming poi lasciarono il lavoro a riprese in corso per spostarsi sul set di Via col vento, altro pezzo di storia del cinema che in contemporanea stava producendo la stessa MGM.
Judy Garland, la cui voce rese immortale Somewhere Over the Rainbow, venne scelta da LeRoy al posto di Shirley Temple. Il produttore ingaggiò anche A. Arnold Gillespie, effettista geniale che attraverso un gioco di specchi sul pavimento rese possibile la scena in cui la casa di Dorothy viene travolta dal tornado e spazzata via dal Kansas. Per il resto, il film è principalmente un lavoro artigianale modernissimo di scenografia, coreografie, trucco e costumi. La cifra autoriale la troviamo principalmente lì.
Il Midwest e le origini di Judy Garland
Oconomowoc, cittadina vivace situata a 45 minuti da Milwaukee, venne scelta probabilmente per il fascino del Midwest, caratterizzato da un retroterra conservatore e bianco e dal modesto mix rurale-urbano nei pressi del lago Michigan. La MGM, dopo aver messo in movimento la stampa, voleva evidentemente valutare le reazioni a caldo delle tipiche famiglie dell’area. Un piccolo laboratorio che avvicinava gradualmente il film ad altri contesti americani: le coste, il sud, la California. L’ampio rilascio. È su questo background identitario e folkloristico che si fonda la carriera di Judy Garland: l’attrice nasce a Grand Rapids, paese del Minnesota che oggi conta circa 10mila abitanti, e viene notata durante un’esibizione a Chicago da un talent scout della solita MGM.
Judy Garland è la Dorothy di cui la produzione ha bisogno: le umili origini di provincia, l’aria un po’ acqua e sapone, gli occhi profondi. Il volto della brava ragazza cresciuta in un ranch con il suo cane Toto. Un po’ ribelle, certo, ma non al punto di infastidire gli USA nazional-popolari che nel Midwest trovano il proprio epicentro. A rassicurare ci pensa il volto, la voce, i modi gentili, una presunta ingenuità. Judy Garland lega poi questa sua identità a Incontriamoci a St. Louis, musical ambientato nell’omonima capitale del Missouri, e A Star is Born. Garland vince l’Oscar giovanile per Il mago di Oz e per Piccoli Attori.
Per Judy sono anni infernali: il suo amore per i riflettori, a lungo andare, non è sufficiente a compensare le condizioni di lavoro. Per la MGM, in quegli anni, un attore è sostanzialmente una proprietà. Il controllo sul corpo diventa poi ulteriormente violento su una ragazzina a cui viene vietato di mangiare e costretta a ingurgitare sonniferi per essere fresca il giorno dopo sul set. Garland sviluppa in seguito disturbi alimentari e alcolismo. Muore in seguito a un’overdose accidentale da barbiturici nel ’69 all’età di 47 anni.
Il mago di Oz è ovunque vuoi cercarlo (è solo un trucco)
Il mago di Oz ha nelle sue cellule molto più di questo. È prima di tutto l’archetipo della storia per eccellenza, nonché quella più filmabile: il viaggio fisico, la scoperta di mondi, come metafora del viaggio interiore. L’obiettivo? Il ritorno a casa. Che nel caso di Dorothy è nel Kansas, ma che può anche essere uno stato mentale. O un posto lontano da quello di nascita. Questa tematica e il viaggio dell’eroina che innesca è veramente ovunque: nelle strutture narrative e nelle suggestioni visive. È nei pastelli di Barbieland e nel viaggio che porta Barbie e Ken nel mondo reale; è nella Dorothy horror di Ti West e Mia Goth; è nella pillola rossa che sceglie Neo. È nell’epopea di Frodo e Sam e nel cinema d’azione. Certo, Il mago di Oz è molto ingenuo, ma le briciole di pane di cui abbiamo bisogno partono sempre dalla casa in Kansas.
I protagonisti del film cercano la casa, il cuore, il coraggio e il cervello. Scoprono che il potente mago in grado di fornirglieli è, in realtà, incapace. È solo un teatrante, un freak quanto loro. Ma il mago ha capito una cosa: le risorse di cui i nostri protagonisti hanno bisogno sono già dentro di loro. Ed è il viaggio, la messa in discussione e il movimento, che li porta a trovarli. Il mago è un prestigiatore, la magia è solo un trucco. Il mondo di Oz è un palco dove esibirsi. E sul palco è questione di scelta: a Dorothy basterà decidere di tornare a casa, battendo le iconiche scarpette rosse, per tornarci. Una profonda questione di scelte. There’s no place like home.
Il film di Garland e compagni parla fondamentalmente di trasformazione e fluidità. Non a caso la stessa Garland è diventata un’icona LGBT. “Che io sia dannata se accettassi di vedere il mio pubblico maltrattato”, disse una volta quando in un’intervista le venne fatta una domanda relativa ai suoi numerosi fan gay. All’epoca, Il mago di Oz era molto queer coded: il mondo di Oz era una sorta di antenato del Pride. Il celebre arcobaleno del film ispirò alcune delle bandiere della comunità. Nella diversità, molte persone hanno trovato appartenenza.
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