Nel documentario su di lui presentato alla recente Mostra del cinema di Venezia, un giovane Jean-Luc Godard spiegava in modo sintetico il suo modo di fare cinema: se una cosa va fatta, lui non la fa; viceversa, se una cosa è meglio non farla, probabilmente troverà il modo per realizzarla. Anche a costo di andare contro i suoi maestri, come André Bazin, il critico-teorico di riferimento dei Cahiers du cinéma che affermava la superiorità del piano sequenza sul montaggio classico, contro il quale – o almeno così sembrò – il giovane critico Godard scrisse Difesa e illustrazione del découpage classico.
Perciò scrivere un ricordo di un personaggio simile il giorno dopo la sua morte, avvenuta all’età di 91 anni nella sua casa svizzera di Rolle, diventa piuttosto complicato, perché scrivere un peana che ne esalti la grandezza, ovvero la cosa giusta da fare, non sarebbe davvero rispettoso del personaggio.
Le teorie dei giochi
Quindi cosa fare? Deriderlo, insultarlo, limitarne il valore come già fatto dal Foglio, e come immagino faranno giornali lontani politicamente dal cineasta? Stavolta non sarebbe rispettoso del mio sentimento verso un regista che, di fatto, la storia del cinema l’ha scritta, riscritta, studiata e smontata, traendone nel 1988 (e fino al 1997) un monumentale zibaldone dal titolo Histoire(s) du cinéma in cui usando la tecnologia video ha preso le immagini di cento anni di cinema, le ha riposizionate, le ha cambiate di contesto, forma e senso e ha riflettuto su come quelle immagini, i suoni e i ricordi combinino di continuo nuove immagini, nuove forme di cinema, un’operazione che avrà una sua propaggine non dichiarata nel 2018, con il suo ultimo film Le livre d’image.
Ecco, a partire da questi due cardini, si potrebbe provare a rileggere l’intera sua filmografia, ricchissima, densa di suggestioni, di svolte e ritorni, di cambi di direzione e rifiuto di un’organicità poetica, come a un grande gioco, perché il modo di pensare e fare cinema di Godard è stato certamente politico, volto a un’affermazione del marxismo più intransigente come la fondazione del gruppo Dziga Vertov nel ’69 e il susseguente rifiuto di sé come artista e autore stanno a dimostrare, ma di fatto il suo modo di mettere insieme frammenti di film e pensieri altrui (Nouvelle vague del 1990 è composto solo di citazioni ed estratti di opere letterarie) è una grande operazione di arte ludica, in cui l’ironia delle forme vela, ma non nasconde la tragedia degli umani.
Questo fin dal suo esordio nel lungometraggio, il leggendario Fino all’ultimo respiro (1960), in cui il noir classico americano era guardato come un terreno su cui costruire una sperimentazione di forme, modi di produzione e montaggio – totalmente anti-classico, alla faccia del pensiero del Godard critico di qualche anno prima – che ha lasciato un segno profondissimo nella Storia, che ha influenzato innumerevoli registi e ha inaugurato (assieme a I 400 colpi del collega e sodale François Truffaut) la Nouvelle Vague.
I film come pratica diventano per Godard la sabbiera in cui sperimentare istintivamente ogni forma possibile di ricombinazione di materiali pre-esistenti (cinema, musica, pittura e letteratura) e di farlo potendo usare la tecnologia in modo inventivo e personale. Innanzitutto, il montaggio che distrugge la linearità del racconto tradizionale, ma che distrugge anche i corpi (Una donna sposata, 1964) e i luoghi (la Parigi di Due o tre cose che so di lei, 1967) per ricostruirli secondo traiettorie intime, che hanno a che fare con lo sguardo personale, con la necessità politica dell’opera; anche i personaggi però, le loro vicende, i gesti e il senso delle loro azioni all’interno del film non hanno mai l’integrità del cinema classico, l’adesione alla narrazione e alle emozioni che dovrebbero trasmettere, ma si caricano di un’ironia che li rende distaccati, parodie o caricature, oppure forme che vengono da altrove e hanno il compito di parlare invece del qui e dell’ora (come in due dei suoi capolavori assoluti, Il disprezzo [1963] e Il bandito delle 11 [1965]).
Requiem (?) per un rivoluzionario
Godard ha avuto l’ambizione grandiosa di analizzare il presente, di mapparlo nel modo più capillare possibile con l’arte, un’ambizione che lo trascinerà via dal gioco filmico durante il periodo del marxismo militante e del gruppo Dziga Vertov. Eppure, a riguardarli oggi quei film, come si fa a non pensare che non siano parte di quella visione del cinema come arte della costruzione e del collage? Vento dell’est (1969) o ancora prima La cinese e Week End (entrambi 1967) affrontano di petto le istanze comuniste della gioventù francese e dei movimenti rivoluzionari attraverso un’esplicita messinscena dei modi, delle tendenze, delle azioni di quella gioventù che assume una lettura ironica, come se nel fondo volesse provocare i provocatori, che infatti non la presero sempre bene, anzi, arrivando spesso a contestarlo e contribuendo all’isolamento del regista e allo scioglimento del gruppo di cineasti rivoluzionari.
Ecco che però la tecnologia gli fornirà il modo per uscire dal limbo tornare a giocare, per tornare a usare pezzi di immagine, che il video e le tecniche televisivi rendono sempre più facili da manipolare: ne escono fuori una serie di film tv realizzati con la nuova compagna Anne-Marie Miéville in cui l’intimità possibile con i nuovi mezzi di realizzazione permetterà di sposare la vita privata, quasi diaristica, alla riflessione storico-politica. Gli anni ’70 sono una meditazione teorica e soprattutto pratica, una messa a punto degli strumenti e dei “giocattoli” di Godard che lo porterà negli anni ’80 a un ritorno clamoroso, segnato da una serie di film che, nel momento più acuto della vacuità dell’immagine (pubblicitaria in primis, cinematografica poi), di un’adesione dell’audiovisivo a una pratica reazionaria o solo di feroce disimpegno, donano a quell’immagine il peso di un pensiero, l’ancora di una storia che si avvera di nuovo e sempre in ognuno di quei fotogrammi; e ci riesce di nuovo giocando con il montaggio e con i ferri del mestiere (Si salvi chi può (la vita), 1980), con l’arte (Passion, 1982 e Prénom Carmen, 1983) e la religione (Je vous salue, Marie, 1985) che nelle sue mani e attraverso i suoi occhi diventano pezzi di un puzzle da ricomporre senza sosta, fino a tutti gli anni ’90, fino al nuovo millennio in cui le tecnologie digitali e leggerissime saranno al suo fianco nel comporre un’opera in cui la distanza tra l’Io dell’autore e gli altri – il mondo o gli spettatori – venisse completamente annullata. Si pensi solo a come nel 2014 Godard realizzi Adieu au langage, a come utilizzi il 3D per parlare di una coppia e del loro cane, a come la stereoscopia e gli interventi video costanti siano un video-diario e al tempo stesso un saggio di semiotica, in cui ciò che ci succede e ciò che succede al mondo sono di fatto la stessa cosa.
La sperimentazione in Godard, come in tutti gli sperimentatori siano essi artisti o scienziati, parte dalle radici di ogni gioco: cosa succede se faccio un certo gesto anziché un altro? Che accade se smonto questo pezzo e ne metto uno diverso? Oppure il meccanismo che regola la scoperta del mondo: facciamo finta che io sia qualcun altro per vivere quest’avventura? Ed è così quindi che vorremmo ricordarlo, con il più bello e divertente dei suoi giochi (almeno per noi), del suo fare finta interpretando un altro da sé e dalla sua storia, quando nel 1987 prese un cortometraggio di Jacques Tati (Cura il tuo sinistro), lo trasformò in Cura la tua destra e interpretò un Idiota regista che porta le pizze del suo film in cerca di produttori, mentre intorno a lui il mondo va a pezzi fingendo allegria, come un Tati post-moderno o un Buster Keaton a cui il cinema ha tolto il genio.
Ecco, il cinema rende idioti: questa sì che sarebbe una provocazione anti-retorica che a Godard sarebbe piaciuta, che ci credesse o meno.
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