Storie sordide, scorci metropolitani bui e verità sporche che rischiano di non venire mai alla luce anche se lui, il detective privato, cerca di ricomporne i pezzi come un moderno demiurgo. Figura emblematica e di culto, il private eye ha saputo raccontare il disincanto dell’America con un’estetica entrata di diritto nella cultura pop. Dalla sua età dell’oro, ai revival degli anni Settanta, fino alle riletture più contemporanee ci chiediamo però se questa figura riesca ancora a raccontarci qualcosa o se sia diventato l’anticamera di un esercizio stilistico.
Uova bollite
Protagonista di una tendenza stilistica che fa capo al macro genere noir, che ha visto la sua epoca di massimo splendore tra gli anni Quaranta e Cinquanta, il detective privato nasce dalle pagine dei romanzi hard boiled – un termine slang che fa riferimento a uova talmente tanto bollite da diventare dure – un po’ a suggerire quella durezza che va a caratterizzare gli intrecci delle storie, ponendo una linea di demarcazione ben netta tra questi racconti, molto più vicini all’immaginario pulp, e le atmosfere da giallo deduttivo alla Agatha Christie.
Il private eye prende corpo sulle pagine spiegazzate di riviste come Black Mask dove Dashiell Hammett fa muovere i primi passi al suo Sam Spade verso la fine degli anni Venti. Negli anni Trenta il genere viene perfezionato grazie autori come James M. Cain (l’autore de Il postino suona sempre due volte) e, soprattutto, Raymond Chandler che riesce a giocare con quelli che sarebbero diventati i trope narrativi del genere facendo diventare iconica la figura del detective privato con il suo Philip Marlowe. Non sarebbe passato molto tempo prima che il cinema trasformasse questi antieroi urbani in personaggi di celluloide dando vita a quella tendenza stilistica che abbiamo già citato: tra misteri labirintici, giustizia inafferrabile e personaggi, uomini e donne, dalla dubbia morale.
Squarci metropolitani in bianco e nero
Non è infatti casuale che due dei film che hanno contribuito a definire il genere facendo entrare la figura dell’investigatore privato – completo inamidato, cappello fedora, qualche bicchiere di troppo e una passione per la femme fatale di turno – nell’immaginario collettivo siano tratti, rispettivamente, da un romanzo di Hammett e un altro di Chandler. Stiamo ovviamente parlando de Il mistero del falco e Il grande sonno che, sfruttando un’estetica di chiaroscuri propria del noir e avvolgendo il proprio protagonista – che in entrambi i casi ha la faccia di Bogart – in un’onnipresente nube di fumo pongono le basi per tutta la narrazione successiva.
Una narrazione che, volutamente, disorienta lo spettatore che si perde in un fitto tessuto di inganni insieme al protagonista, il quale talvolta commenta gli avvenimenti con quella voce fuori campo diventata una dei tratti caratteristici del genere. Pensiamo solo al fatto che la versione originale di Blade Runner imposta da Warner Bros. prevedeva la voce fuori campo di Harrison Ford proprio per avvicinare quanto più possibile il film ai classici. Una scelta non azzeccata e che snaturava il film, ma quella è un’altra storia ancora. Raccontandoci di decadimento morale, corruzione e portando sullo schermo una figura che, già negli anni Quaranta, appariva nostalgica e romantica il detective movie è, forse più di tutti, un genere che deve il suo tono e il suo stile a un momento storico ben preciso. Qualcosa da cui non è mai stato facile distaccarsi del tutto.
Dagli anni Settanta in poi
Nonostante tutto, Hollywood non ha mai smesso di subire il fascino del private eye, forse per legittimare se stessa andando a ricercare una connessione con il proprio passato o forse perché il genere, più di molti altri, dà la possibilità di parlare di violenza e squallore mantenendo una certa eleganza formale. Quindi ecco che in piena New Hollywood, con tutta l’incertezza sociale e culturale dell’America di quel periodo, escono due neo noir molto diversi tra loro e che cercano di rileggere il genere con la sensibilità contemporanea: uno mantenendo un’ambientazione d’epoca, l’altra spostandola nella Los Angeles degli anni Settanta. Ovviamente stiamo parlando di Chinatown di Roman Polanski del 1974 e Il lungo addio di Robert Atman, uscito l’anno precedente nel 1973. Mentre quest’ultimo mostra un Marlowe decadente, moderno ma allo stesso anacronistico, Chinatown torna indietro nel tempo, nel 1937, per raccontare una storia capace di elevare il genere stesso grazie a una sceneggiatura da manuale in cui emerge quella consapevolezza che rende Gittes tanto moderno quanto tragico.
Un esperimento che nel 1997 tenta di fare anche L.A. Confidential con un film che, con la sua ambientazione inizio anni Cinquanta, cerca di inserirsi nel filone dei neo detective movie (le musiche sono di Jerry Goldsmith, che compose anche la colonna sonora di Chinatown) costruendo un’impalcatura solida ma che non ha saputo resistere alla prova del tempo. Qualcosa che invece non è altrettanto vero per Chi ha incastrato Roger Rabbit che giocando con il genere – e addirittura prendendo spunto da quella che avrebbe dovuto essere la terza puntata mai realizzata della saga di Gittes dopo Chinatown e Il grande inganno – dimostra che per riportare il detective al cinema e imprimerlo nel cuore degli spettatori ci voleva qualcosa di diverso.
Stravolgere il genere
Inizia perciò a essere chiaro che l’unico modo per dare nuova linfa a un tipo di personaggio classico come quello dell’investigatore privato sia quello di stravolgerlo, sia sul fronte stilistico che narrativo. Qualcosa di estremamente complesso perché, nonostante tutto, la figura del private eye è ormai scolpita nella cultura pop e nel cuore dei cinefili. Accade quindi che l’ambientazione si sposti, come nel caso di Gone Baby Gone, in cui Boston si sostituisce alle canoniche Los Angeles e San Francisco o in quello di Decision to Leave in cui il setting coreano deve molto all’immaginario americano; succede anche che il detective, reale o presunto, si spogli di cappello e completo, vada in giro per Los Angeles in ciabatte e che al posto delle sigarette fumi erba come ne Il grande Lebowski o in Vizio di forma.
Ciò non significa che l’investigatore privato non possa tornare nel suo contesto, temporale e culturale, di riferimento ma a oggi risulta comunque complesso essere freschi e credibili con un approccio del genere. Pensiamo al film Sky Original del 2022 Detective Marlowe con Liam Neeson, passato praticamente inosservato. È recente invece Sugar, serie Apple TV+ con Colin Farrell che porta sullo schermo un investigatore privato nella Los Angeles contemporanea creando un filo diretto con i classici del genere. Il protagonista è infatti un cinefilo che si sente un po’ Bogart e un po’ Glenn Ford e che, ovviamente, si mette in una situazione più grande di lui quando decide di indagare sulla scomparsa di una ragazza. Una serie che, pur prendendo scelte azzardate, cerca di rileggere il genere omaggiandone le radici e cercando di guardare avanti proponendo, se non altro, una prospettiva differente. Da qui la dimostrazione che sì, il detective privato al cinema (a anche in tv) funziona ancora a patto di non diventare la scusa per mettere in atto esercizi stilistici fini a se stessi. Perché, del resto, che sia vestito in vestaglia o di tutto punto l’investigatore è uno che si deve sporcare le mani nella sua discesa negli inferi urbani; solo così la sua impossibile ricerca della verità può riuscire ancora ad appassionarci.
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