Uno dei film più famosi della recente storia del cinema inizia con una frase indimenticabile: “Il mondo è cambiato. Lo sento nell’aria“. Non dobbiamo essere Lady Galadriel e non dobbiamo avere il fascino di Cate Blanchett per sentire risuonare nella nostra testa questa frase quando volgiamo il nostro sguardo al cinema mainstream del 2023.
Qualcosa è cambiato, giusto per citare il titolo di un altro film, e questo cambiamento risuona violentemente, anche se in maniera a prima vista più silenziosa del previsto. Perché, in poco meno di quattro mesi, il 2023 si è dimostrato un anno particolare, dove le certezze che ci avevano accompagnato a lungo hanno lasciato spazio a qualcosa di diverso e inaspettato: il desiderio.
Come pubblico abbiamo iniziato a desiderare qualcosa di nuovo, mettendo da parte le vecchie abitudini e non accettando più il semplice usato garantito che fino a poco tempo fa ci soddisfava. Un desiderio che rappresentiamo con gli incassi, con le conversazioni, coi trend sui social che decidiamo di seguire. Un desiderio che si è insinuato piano piano in noi dopo il terribile periodo pandemico, considerato un Anno Zero dagli effetti negativi. Non sono pochi i registi famosi (Scorsese, Jarmusch, Aster, solo per citare gli ultimi a lasciare dichiarazioni di questo tipo) che sottolineano la loro visione apocalittica e mortifera del cinema, sia come esperienza di visione che come industria culturale. Frasi come “Il cinema è morto”, “Lo streaming regna”, “L’industria ha fallito” vengono ripetute come mantra, portando in primo piano la fine di un’abitudine, un disinteresse da parte del pubblico generalista e una forte crisi d’identità da parte degli addetti ai lavori.
E se, invece, questo nuovo inizio non fosse tutto così buio, ma fosse una lanterna propedeutica a mostrarci una nuova via? Saremmo coraggiosi da intraprendere un nuovo percorso?
A quanto pare, qualcosa sta davvero cambiando. O forse, è già cambiato.
La voglia di novità
Fino al 2020 il pubblico sapeva esattamente cosa voleva e l’industria sapeva esattamente cosa offrire. Per più di un decennio i grandi blockbuster mainstream erano tiri sicuri, rigori a porta vuota che sapevano intercettare il gusto degli spettatori. D’altro canto il pubblico era più interessato al gol che alle parate. Bastava l’azione, l’adrenalina, bastava il divertimento senza sorprese, ma anche il rassicurante sentimento protettivo che la proiezione sul grande schermo sapeva offrire. Funzionavano gli ennesimi sequel e i soliti brand, le lunghe saghe già sinonimo di intrattenimento sicuro. Non serviva altro.
Poi, come una strada percorsa troppe volte, dove scorre un paesaggio osservato dal finestrino sempre uguale, abbiamo deciso di prendere una deviazione. Ed è così che nell’ultimo anno i più grandi successi al botteghino e i titoli più memorabili hanno avuto sempre meno a che fare con la consuetudine. Alla lunga saga dei supereroi Marvel si è contrapposto un film schietto e semplice, che ci portava in aria e ci faceva viaggiare a velocità supersoniche. All’eroe giovane in costume si è sostituito un sessantenne in divisa, all’uomo coi superpoteri il pilota analogico. Poco importa se Top Gun: Maverick non ha rivoluzionato il modello produttivo hollywoodiano come l’epopea di Kevin Feige. Il film con Tom Cruise ha ricordato quanto il cinema può essere semplice, senza storie pregresse da recuperare o serie tv da intrecciare.
A dicembre ci siamo meravigliati di un mondo alieno, immergendoci in acque digitali mai così cristalline e popolate. E solo poche settimane fa abbiamo iniziato a calarci in tubi verdi per ridere di una tartaruga gigante che dedica struggenti canzoni d’amore alla principessa del Regno dei Funghi.
Nel frattempo, quell’usato garantito, ha iniziato a perdere il proprio fascino, tra più che discreti risultati al botteghino e veri e propri flop commerciali. È nata una nuova curiosità verso titoli che sembravano nuovi, lasciando un retrogusto di ricerca (o addirittura bisogno) della novità da parte del pubblico.
La lunga durata è un problema?
Cosa rende un film speciale? Per quanto non sia una matematica precisa, oltre all’estetica e alle emozioni, siamo tutti d’accordo che un film dalla durata extra-large porta con sé, in maniera quasi subconscia, una dichiarazione di valore. Film dalla durata importante di due ore e mezza o tre ore, per quanto possano in qualche modo lasciare un po’ sconcertate alcune tipologie di pubblico, denotano un’importanza al loro interno. Il richiamo è quello della grande storia, dell’epopea che merita la visione in sala, capace di far valere il prezzo del biglietto. Come un invito a un ballo di gala di lusso.
Spesso queste durate vengono prese come elementi discriminanti per la riuscita del film, d’altronde – si sa – l’attenzione cala e la vescica è piccola, ma è davvero così? In realtà, come avevamo già avuto modo di parlarne in un nostro editoriale dal titolo No, un film lungo non è un sequestro di persona, le durate monstre dei film non hanno mai impedito il successo al botteghino. Anzi.
Oggi le cose non sono poi così tanto cambiate. Film come The Batman, Avatar: La via dell’acqua, John Wick 4, Black Panther: Wakanda Forever, Elvis o Jurassic World: Dominion dimostrano che, se il film è avvincente e piace, rimanere seduti in sala a lungo non è un problema insormontabile. Certo, esistono i film troppo lunghi e squilibrati, ma il pubblico non sembra accusare la lunga durata, se la storia piace.
Storie, non brand
E forse questo cambiamento non è poi così repentino e strano. Dopo un decennio in cui funzionava il nome del brand forse il pubblico sta lentamente tornando a preferire la storia. Non importa se si tratta di un nuovo episodio di una lunga saga molto amata o l’ennesima versione di un personaggio visto e rivisto sul grande schermo. Il successo di The Batman e il fallimento dell’ultimo Animali Fantastici, così come l’interesse per Il Gatto con gli stivali 2 a scapito di un Lightyear o l’ennesimo superhero movie dimostrano che il brand fidelizza il pubblico fino a un certo punto (e il recente Ant-Man and the Wasp: Quantumania, sulla carta un film evento di inizio Fase 5, lo dimostra).
Perché i due anni di pandemia, in cui siamo stati costretti a convivere il più possibile con uno schermo (che sia quello televisivo o dello smartphone poco cambia) ci hanno offerto – e continuano a farlo – più di quanto potremmo vedere. E allora, come risvegliati da un lungo sonno, abbiamo capito che l’amore per un marchio non basta. Che abbiamo bisogno di dedicare il nostro tempo con coscienza e reale interesse nei confronti delle storie proposte.
E che inseguire il completismo di visione non equivale al completismo delle emozioni.
Ci siamo messi i guantoni per parare e ora ci piacciono i gol che arrivano da grandi azioni.
Certo, è un processo in divenire, lento e altalenante. Ma se è questo il cambiamento che stiamo dimostrando, sicuramente il cinema non lo stiamo uccidendo.
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