Se l’horror esiste è perché a noi piace essere terrorizzati. Non tutti ricerchiamo il sentimento del disgusto, ma quello della paura ci attrae per qualche bizzarra ragione. Bizzarra ma scientificamente motivabile: psicologicamente tendiamo a ricreare situazioni d’ansia relativamente controllabili che possano dimostrarci quanto siamo bravi a manipolarle. E ancor più forte della psiche c’è quella componente ormonale, tipica dell’essere umano, che ci fa sentire più emotivamente intuitivi e fisicamente potenti nelle condizioni di pericolo. Repulsione e attrazione sono le due reazioni possibili dinanzi ai “film di paura”, un dualismo che si riflette nelle stesse possibili risposte dello spettatore alle scene ributtanti dell’horror che tanto facilmente lo ha accattivato.
La paura nel mondo di oggi
È ancora possibile fare paura oggi? L’era digitale ci ha catapultati in uno stato di spettatorialità costante: social e piattaforme streaming (non serve risalire alla televisione) hanno reso impossibile sottrarsi all’esperienza mediatica. Il flusso d’immagini che si materializzano attorno a noi è talmente pervasivo che siamo giunti a un rapporto interattivo con questo: basti pensare alle “challenges”, strutturate su un dialogo a concatenamento fra chi realizza il video (la sfida, appunto) e chi dovrà emularlo, contribuendo alla diffusione virale del fenomeno. Horror challenges dalle sadiche premesse e dai tragici esiti (come la Blue Whale) sono l’esempio di una realtà che, banalmente, supera la finzione, ma sarebbe stato sufficiente il volto della Momo challenge a gelare il sangue. TikTok pullula di video virali agghiaccianti che fanno il verso a celebri cortometraggi – primo fra tutti Lights Out – e che seguono formule simili, dalla durata brevissima al finale con jump scare. Quelli “di YouTube” contavano, con i video horror virali di qualche anno fa, sullo stesso congegno a sorpresa, applicato a un diverso formato video. Sì, è ancora possibile fare paura, e a volte addirittura facile. Ma il cinema è ancora in grado di stare al passo con i nuovi media?
Esistono ancora gli shock movies?
Nel 1895 l’oggetto più terrificante mai visto su uno schermo era un semplice treno. Nel 1999 quest’oggetto era l’impalpabilità di una strega dei boschi che in confronto al panico da autosuggestione risultava nulla. Nel mezzo ci sono state le isterie collettive generate da cult movies come L’Esorcista, Nightmare, Paranormal Activity o shocker movies come The Human Centipede, seguendo le oscillazioni di un genere cinematografico che a ogni decade si rinnova in base alle esigenze di industria e alle richieste del mercato e, puntualmente, riesce a far fuggire qualche spettatore da qualche sala (come Terrifier 2). Reazione che si verifica in misura rilevante anche con opere appartenenti ad altri generi – Irréversible, 127 ore, madre! – perché a provocarla è l’impensabile che viene mostrato. È l’esibire un trauma irrappresentabile, che sia una violenza sessuale o indugiare su un qualsiasi atto sanguinario, a rendere maledetti i film in modo trasversale, a prescindere dai generi d’appartenenza. Non è un caso che gli slasher horror anni Settanta appartengano a questa pseudocategoria in numero maggiore rispetto agli horror anni Ottanta, Novanta o Duemila: quando l’horror mainstream ha smesso di occuparsi di questo aspetto dell’esperienza umana avrebbe, allo stesso tempo, smesso di “far paura”.
Brad Miska, caporedattore di Bloody Disgusting, fa l’esempio di ciò che è accaduto con i film super-gore, che “provavano a colpirci usando immagini violente”, specificando che quando gli spettatori hanno cominciato a non rispondere più a queste opere “siamo regrediti a roba come Paranormal Activity”. In un articolo sulla stessa rivista Ron Breton illustra il pattern con cui l’ondata di film ad alto tasso di violenza tende a essere seguita da film riflessivi e più psicologici. È successo anche in seguito agli slasher anni Ottanta che evolvono a partire dagli anni Settanta: con Scream di Wes Craven si inaugura un metacinema horror fatto della lucida autoconsapevolezza dei tropi dello slasher, tanto da indurre a ipotizzare una morte apparente di questo sottogenere (ben raffigurata dalle parodie di Scary Movies). All’improvviso non è più possibile provare sgomento dinanzi al killer mascherato con ascia, e ritorniamo al bisogno di esplorare gli oscuri dirupi della psiche umana senza massicci spargimenti di sangue.
Cos’è che ci fa paura
La verità è che non esiste una definizione univoca di paura; che, addirittura, un film drammatico potrebbe spaventarci più di quanto un horror non faccia, e che sarebbe ingenuo credere che le fobie individuali possano essere rappresentate univocamente da un’opera sola. Tutte verità semplici quanto insipide. Il fatto è che, tuttavia, l’horror è l’unico genere cinematografico che si delega il compito di riuscire a farlo, e i momenti salienti della sua storia sono le occasioni in cui si è fatto portavoce delle paure ataviche più che di quelle personali. Prendiamo ancora L’Esorcista, che mette in scena la crisi di fede attraverso lo scomponimento del corpo puberale di un’adolescente. Prendiamo Deliverance o Lo squalo, che riproducono lo scontro fra l’uomo e le forze sconosciute di una natura ostile. E perché non prendere Shining, storia di reclusione e di isolamento, di spettri e ossessioni familiari.
È sufficiente aggirarsi fra i topic a tema su Reddit e simili per rilevare quale sia, secondo i diretti interessati (gli spettatori), l’incaglio principale dell’horror oggi, che è poi una sciagura per la fruizione di film tout court: i trailer. Sempre più lunghi (la media si aggira fra i 2.30 e i 3 minuti), sempre più narrativamente coesi e autosufficienti, sempre più rivelatori: dal 2010 a oggi i trailer hanno perso la loro funzione di teaser – affidata invece a dei video appositi, in più, che hanno questa funzione specifica – e acquisito quella di sintesi. Non è stato possibile vedere i due capitoli di IT o quelli di Chucky senza aver già assaggiato gran parte di ogni scena madre mediante la visione dei trailer o delle clip in esclusiva, che ci mostrano direttamente le sequenze migliori dei film nella loro interezza. Contando quanto condizionato sia un horror dall’elemento sorpresa, essendo un genere tutto imperniato sul fattore shock, il trailer dovrebbe preservare il film proteggendo l’esperienza dello spettatore. Ma non è tutto.
Il panorama degli anni Duemila
Gli anni Duemila non sono uno sconfinato paesaggio desertico. Se pensassimo ai J-horror (Kairo, Audition, la serie di Ju-on, quella di Ring) o agli horror sudcoreani (Two Sisters, The Wailing) troveremmo già materiale in grado di confutare la tesi secondo cui l’horror sarebbe morto. Accadrebbe lo stesso menzionando gli universi di James Wan, fondato sui due The Conjuring e fomentato da Annabelle, e di Mike Flanagan, che fra la serie Midnight Mass, The Haunting, The Midnight Club e il film Gerald’s Game ha ormai il suo Flanaverse su Netflix. Contrapposta poi all’horror mainstream c’è tutta la corrente di film A24: il recente Barbarian, X, Midsommar ed Hereditary, The Witch, It Comes At Night, The Lighthouse sono horror che nascono dall’idea che il terrore possa insinuarsi nella psiche dello spettatore soltanto a patto che si abbandoni la strada dello spavento a buon mercato e si affidi l’orrore alle atmosfere, e che debba essere artisticamente valido ed elevato. Con A24 torna in auge l’etichetta “elevated horror” (o “art horror”) ma non il concetto: elevated horror è già Nosferatu, e siamo negli anni ’20. Molti film A24 alla loro uscita sono stati definiti spartiacque, in maniera forse prematura; ma questo ci dice che per tempi che cambiano si deve essere solo in grado di trovare autori in grado di coglierli. Scappa – Get Out di Jordan Peele, che ha saputo indagare l’orrore secondo una prospettiva di discriminazione razziale, è uno dei film con il maggior numero di voti positivi sugli aggregatori di critica (arrivando anche al massimo possibile).
Nuovi modi per spaventare
Analizzando il successo di film del genere e quello, ancor più massiccio, di film su spettri e demoni, la risposta è piuttosto ovvia: a vincere sono quelle storie che sanno rappresentare le paure ancestrali dell’umanità facendone metafora della contemporaneità, ma non solo. Servono anche registi in grado di usare le immagini in modo inedito o guardando alla classicità, prendendosi il tempo per plasmare il loro mondo narrativo e il suo etere senza avvertire l’urgenza di trattenere lo spettatore in sala con scelte visuali ovvie. Assodato che è quasi impossibile ideare un nuovo linguaggio (anche se Unfriended ci ha provato), bisogna saper riesumare quello che come spettatori abbiamo dimenticato per smuovere le emozioni del pubblico. Non tremiamo quando a Danny viene fatto divieto di entrare nella 237. Tremiamo quando, già nella 237, Kubrick stabilisce una prospettiva che focalizza la nostra attenzione sulla tenda della vasca al centro dell’immagine, incoraggiandoci ad aspettare di vedere, con angoscia, chi o cosa la sposterà.
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