La carriera cinematografica di Scott Derrickson sembra uno di quei giochi in cui abbinare parole o immagini mettendo insieme un’unica sequenza. Come quando ogni cosa viene collegata l’una con l’altra, creando un unico affresco che, seppur partito da uno spunto lontanissimo, racchiude comunque il seme che lo ha condotto fino a Black Phone. Un po’ come la maledizione che contagia le persone nel suo Sinister, con ognuna delle famiglie vissuta in precedenza nella casa di alcune vittime di omicidio e pronte a diventare le prede a loro volta.
Questo anche quando si dovrebbero escludere alcuni dei titoli della sua filmografia. Da un debutto con Hellraiser 5: Inferno che lo poneva più al servizio del proseguimento di una saga, saltando nel 2008 alla fantascienza di Ultimatum alla Terra e finendo poi sui pianeti dell’universo Marvel. Anche se con Doctor Strange ci si è ritrovati di fronte all’opera più conturbante dell’intero MCU, e non è certo un caso che per il sequel del film stand alone del protagonista di Benedict Cumberbatch sia stato scelto un altro maestro del cinema dell’orrore, l’adorato Sam Raimi.
Un passato tra gli esorcismi
È il sovrannaturale che da sempre tocca le pellicole del cineasta di Denver e che nel suo percorso autoriale e registico ha cambiato ogni volta i connotati, mantenendo però di base sempre e solo la realtà. Quella da cui partono le situazioni di dolore e disagio delle persone, facendo del dramma il vero costrutto da cui cominciare per edificare il proprio schema della paura. Quello che con The Exorcism of Emily Rose nel 2005 non poteva che nascere dal male assoluto. Puro, intonso, intaccato. Una malvagità superiore che di paranormale ha i demoni, i quali scelgono di possedere la normalità delle persone. Ma non è mai, per l’appunto, solamente l’effetto scioccante che Scott Derrickson ricerca. Non è il disturbare lo spettatore o il lasciare che proprio quel male rimanga invano.
È sempre un modello ben definito del proprio mondo quello in cui il regista inserisce gli elementi horror, in riferimento tanto all’attinenza con fatti riportati dalla realtà quanto all’attenzione per lo sfruttamento dei generi cinematografici. Con The Exorcism of Emily Rose e Liberaci dal male (2014) Derrickson utilizza entrambi. Se il primo film si identifica come procedural drama, è invece il filone poliziesco che la seconda pellicola sfrutta per portare assieme terrore e intrattenimento di fronte agli occhi degli spettatori.
È partendo dal tono specifico che l’opera deve avere che Derrickson sa poi come inserire sensatamente e con credibilità l’esorcismo, plausibile proprio per il contesto saputo fabbricare attorno, che sostiene e innalza il contenuto sia drammatico, che prettamente orrorifico dei due lavori. Un guardare alla quotidianità che, inoltre, parte proprio dalle diciture iniziali che vogliono The Exorcism of Emily Rose e Liberaci dal male ispirati da eventi reali. Di cui nella scrittura dei loro rimaneggiamenti per il cinema l’autore riporta non solo un riscontro o meno con la verità, ma la messa in discussione di una dimensione che può essere altra, anche quando tratta il male.
Dai fatti reali alla creazione orrorifica
È la possibilità che Scott Derrickson usa. È la coscienza che fa smuovere nel pubblico durante la visione di due film che ci dice essere stati presi da quella che potrebbe essere la consuetudine di chiunque, sconvolta da un paranormale a cui molti possono risultare più sensibili e cercando magari di accentuare anche nello spettatore la comprensione di un mondo che potrebbe andare oltre il concreto. Possibilità che per i suoi protagonisti nei film diventa l’opportunità per cambiare, forse migliorarsi: accettare che se esiste un male così grande allora forse può esistere un amore altrettanto forte. Un bene che accetta di mettersi al servizio degli esseri umani, da soli e in balia di potenze sovrumane.
E se è da libri esistenti che derivano i film sugli esorcismi, non può che essere uno scrittore il protagonista di Sinister del 2012. Ethan Hawke è insieme romanziere e giustiziere che dalla pagina stampata ricerca informazioni e indizi per risolvere casi rimasti aperti nonostante il coinvolgimento della polizia. Testi volti ad un’investigazione approfondita, al raggiungimento della verità, ma se questa coincidesse anche con il ritorno della fama persa oramai da anni dopo il suo primo successo, allora forse l’uomo riuscirebbe a tornare felice e soddisfatto di se stesso, oltre a estinguere i debiti che rischiano di far vendere la sua bella casa.
Anche con Sinister, dunque, è un obiettivo umano quello che il film prefigge al suo protagonista e che viene condotto all’estremo in una discesa rovinosa tra i filmini di uccisioni sadiche che ritraggono quadri di famiglia, alimentati dal whisky sempre aperto sul tavolino dello scrittore e buttato giù per tenere testa alle sevizie inquadrate. L’ossessione della riuscita personale mescolata a qualche bicchiere di troppo diventa il tappeto ideale per creare il vuoto attorno al romanziere, che sentirà così di essere il solo a percepire una presenza sempre più pregnante all’interno della sua nuova casa, quella che era stata proprio teatro di un’impiccagione agghiacciante. La scivolata nel vortice dei fiumi dell’alcol e della consapevolezza di trovarsi di fronte all’inspiegabile costruisce un dramma personale e famigliare che sostiene gli inserti horror. Centrali in un film appartenete al genere, ma estremamente più efficaci se inseriti adeguatamente in un contesto più ampio.
Black Phone e il rovesciamento del paranormale
Se ogni volta quindi Scott Derrickson affronta temi ricorrenti nella sua cinematografia, con Black Phone avviene il rovesciamento di quella sua rincorsa al male inteso come metafisico, votato al bene per il film tratto dal racconto di Joe Hill, in contrasto proprio con le azioni degli uomini. Con la presenza aleggiante di Stephen King, essendone Hill addirittura il figlio, la pellicola ha stavolta presupposti sovrannaturali che vanno dalla chiaroveggenza al parlare con i defunti rendendo queste capacità gli strumenti per fronteggiare un male terreno. Un crimine effettuato dal Rapace, uomo mascherato intento a rapire i giovani ragazzini del suo quartiere e a ripetere un pattern di rapimenti e torture probabilmente scaturiti da traumi del passato.
Se nelle precedenti operazioni horror del cineasta il male arrivava per corrompere la normalità, portandola da uno stato di quiete ad uno stravolgimento, è stavolta l’essere umano ad agire per esternare i suoi istinti animaleschi e a venir contrastato dalla possibilità – sì, anche questa volta possibilità – di venir arrestato da strumenti del paranormale. Un mettersi a disposizione di fattori invisibili allo sguardo umano che ne aprono la mente e i presentimenti, facendo così balenare in testa alla sorella di Finney momenti e luoghi utili al ritrovamento del fratello, mentre il ragazzino apprende da un telefono non attaccato alla corrente come rimanere vivo grazie ai consigli di chi lo ha preceduto in quel seminterrato.
L’aldilà, l’oltre, ciò che è dall’altra parte. Un cambio di paradigma per Scott Derrickson che con Black Phone dimostra ancora una volta come ci si trovi di fronte ad un regista e sceneggiatore in continua evoluzione, che sa quali sono i punti da voler maneggiare nel suo cinema e trovando sempre la maniera migliore per farlo. Scovare tanti piccoli spunti e inserirli in una filmografia che ha un filo conduttore che li lega insieme anche nelle tante variazioni. Quelle necessarie per non rimanere fermi su se stessi e continuare a terrorizzare lo spettatore.