Che volto ha il giovane cinema italiano? Se dovessimo sceglierne uno, anzi due, il nostro pensiero andrebbe subito a quello dei fratelli D’Innocenzo, giovanissimi registi che sono riusciti, in pochissimi anni, a ergersi nel panorama contemporaneo. Al cinema con il loro terzo lungometraggio dal titolo America Latina, presentato già al Festival del Cinema di Venezia 2021, Fabio e Damiano D’Innocenzo vantano già una filmografia intrisa di una poetica tutta loro, supportata da un gusto per il racconto che, ad oggi, si dimostra unico. E proprio per questo li rende importanti.
Nati nel 1988, i giovani registi hanno dimostrato una maturità artistica che lascia sorpresi, appartenendo a una dimensione cinematografica a cui, forse, il pubblico non è più abituato. Storie crude, schiette, dove l’accento viene posto dalla condizione esistenziale sospesa dei protagonisti, alla ricerca di una felicità o di uno sprazzo di vita che il mondo intorno a loro rende difficile da raggiungere. Con La terra dell’abbastanza, folgorante esordio, vincitore del Nastro d’Argento Migliore Opera Prima e Miglior Regia, passando per Favolacce, Orso D’Argento alla Miglior Sceneggiatura al Festival di Berlino 2020, e arrivando al più recente America Latina, il cinema dei fratelli D’Innocenzo si svela, narrando un percorso sempre più estremo, e allo stesso tempo, sempre più poetico.
“Nessun posto è casa mia”
Dove si vive definisce perché si vive. Domande e risposte che i protagonisti dei film dei fratelli D’Innocenzo continuano a porsi e, allo stesso tempo, ne temono la risposta. A cavallo tra la periferia di Roma, i quartieri apparentemente perfetti, roulotte e ville fatiscenti, i personaggi sono alla costante ricerca di un senso preciso alle loro esistenze.
Se lo chiedono Mirko e Manolo nelle prime scene de La terra dell’abbastanza, mentre, dopo aver mangiato un panino con la cicoria, riflettono sul loro futuro. Vivono nella periferia di Roma, il loro destino sembra già scritto: dopo essersi diplomati all’alberghiero diventeranno cuochi o camerieri, chiusi ancora una volta in luoghi soffocanti, tra le pareti di una stanza. Questo senso di chiusura si percepisce sin dalla prima inquadratura del film che mostra l’auto in cui i due ragazzi sono seduti al centro di uno spiazzo, in un quartiere di periferia che definisce già la caducità della loro vita. Lo spiazzo è incorniciato da una strada circolare, che allo stesso tempo racchiude e confina i due protagonisti, sottolineando la struttura stessa del film. Sarà con la morte di una persona che Mirko e Manolo vedranno cambiate le loro vite e sarà con la loro morte che il film si concluderà. Nel mezzo, una felicità apparente, un cambiamento che avviene solo nella loro testa, una flebile speranza di cambiare luogo, di vivere da un’altra parte. La stessa speranza che muove Ambra, la ragazza di Mirko, desiderosa di partecipare a un talent televisivo per sentirsi benvoluta. O, semplicemente, per potersi definire qualcuno.
Cambiare luogo significa cambiare vita, e viceversa. È quello che sogna anche Vilma, la giovane ragazza-madre presente in Favolacce, che cerca di convincere il proprio ragazzo a lasciare quel quartiere e fuggire insieme, per dare inizio a una nuova vita, migliore, in tre. Anche a lei, come ad Ambra, non resterà che scontrarsi con la realtà e un partner che fatica davvero ad amare, perché rinchiusi a loro volta in una depressione e repressione dei sentimenti. A loro non resta che cantare, per descriversi, per esorcizzare le loro paure. Il sogno di Ambra è sulle note di Chiara Galiazzo, vincitrice di X-Factor nel 2012, (“Nessun posto è casa mia”); Vilma, invece, renderà il suo libero canto sempre più disperato attraverso Paolo Meneguzzi (“Sara”).
Questa situazione esistenziale si trova anche nell’intero gruppo di bambini di Favolacce, che confluirà nel suicidio di massa finale, e in Massimo, il protagonista interpretato da Elio Germano di America Latina, che vive in una villa silenziosa di Latina con una strana famiglia composta da sole donne, simili ad angeli. Il paradiso assume però le forme di una prigione, come l’educazione dei genitori nei confronti dei loro figli in Favolacce.
È solo l’amore, quello che c’è
La dimensione domestica, quella della casa, del focolare, diventa quindi il luogo in cui i protagonisti dei film sono incastrati. Un posto che li rende estremamente infelici, ma che di contro costituisce un rifugio nel quale sentirsi protetti. La famiglia acquista un ruolo importante nei film dei fratelli D’Innocenzo, anche se non sempre il tutto assume toni rassicuranti. A volte la famiglia è un grembo materno nel quale trovare conforto, a volte è un abisso da cui è impossibile uscire.
Padre e figlio. Ne La terra dell’abbastanza il rapporto tra Manolo e suo padre è viscerale. Dopo l’incidente che apre il film, Manolo trova sicurezza in suo padre, un uomo che sperpera il denaro che guadagna alle macchinette del bar. Sarà suo padre a sapere cosa sia giusto fare, è suo padre che risolverà la situazione. Il figlio non può far altro che riceverne l’educazione e ritenerlo il modello di vita, come accade con un’altra coppia, a prima vista la più felice del lotto in Favolacce, tra Geremia e il padre Amelio. Eppure, proprio l’educazione impartita dal padre rende Manolo un ragazzo insensibile, incapace di espellere le proprie pulsioni e i propri pensieri. Sotto la scorza del “duro”, si nasconde un individuo fragile che metterà fine alle proprie sofferenze. La reazione del padre sarà fredda, quasi distaccata, risolvibile con una nuova giocata alle slot machine e la superficialità di un tatuaggio col nome del figlio perduto (similmente a quella tra Massimo e suo padre in America Latina).
Madre e figlio. Mirko, tuttavia, sembra avere un rapporto diverso con la madre. Più caloroso, anche se non scevro di conflitti man mano che Mirko si disumanizza precipitando sempre più nella spirale criminale e acquisendone la mentalità. La presenza del femminile nella sua vita, però, lo porta a sprigionare un affetto e una sensibilità maggiori: è lui il primo a disperarsi quando investe l’uomo a inizio film, è lui che – almeno all’inizio – ha una relazione con Ambra o che cerca di guadagnarsi l’affetto dei propri cari (anche se nella maniera sbagliata), ed è sempre lui che si carica della responsabilità della morte di Manolo, pronto ad autodenunciarsi alla polizia prima di essere freddato da un colpo di pistola. Discorso opposto, invece, per le madri presenti in Favolacce, che diventano specchi di una mentalità patriarcale, quasi esenti da personalità, figlie ormai bruciate e totalmente divorate da quell’educazione e da quel mondo da cui le nuove generazioni vogliono fuggire. E dove, invece, Massimo in America Latina ha bisogno di perdersi.
In tutti e tre i film, la dimensione maschile sembra essere messa in discussione nella sua forma più patriarcale e dura, smussandola, frammentandola, esprimendo una sensibilità talvolta soffocata per rappresentare sé stessi come il mondo (ancora una volta il luogo dove si vive) obbliga. Non c’è spazio per l’amore, eppure questo sentimento così esasperante e così folle sembra essere l’unica cosa che conta. L’unica cosa che c’è.
Annoiati dalla vita, bisogna morire
Lo stile dei fratelli D’Innocenzo si è fatto via via sempre più raffinato ed elegante, attento alla composizione dell’immagine e scevro di virtuosismi. Quasi a sottolineare la noia verso la vita che i personaggi sembrano vivere. Questo non deve, tuttavia, trarre in inganno: all’interno di questa “freddezza” si nasconde un inno alla vita.
I personaggi annoiati dalla propria esistenza trovano nella morte, fine del ciclo naturale dell’esistenza, la propria libertà a lungo ricercata. In soli tre film, la poetica delle loro storie sembra aver abbracciato sempre più una sorta di malsano ottimismo. Dal finale cupo de La terra dell’abbastanza dove la morte dei figli non cambia la mentalità dei loro genitori e delle loro famiglie, consapevoli di vivere in un luogo in cui bisogna accontentarsi, alla danza macabra di Favolacce dove, invece, avviene l’opposto: i genitori shockati e finalmente capaci di esprimere un sentimento vero in una vita di falsità, e i figli che si sono suicidati per fuggire da quella ennui che non dava loro spazio. Se il mondo non può reggere alla loro esistenza, tanto vale bruciare le tappe, perché – come ricorda la ballata finale del film – “bisogna morire”.
America Latina sembra la diretta prosecuzione di questo discorso: la vita come un sogno da cui prima o poi bisogna svegliarsi, non necessariamente attraverso la morte in senso fisico, ma con la sua stessa presenza. È un film in cui la morte (o per meglio dire, l’assenza di vitalità) svolge un ruolo fondamentale e dove la liberazione può avvenire solo attraverso di essa. È anche il film dal finale più solare e luminoso, per quanto tragico, dove ancora una volta l’amore, anche nella sua forma più malsana, flirta e danza con la vita e la morte.
Sono solo tre i film dei fratelli D’Innocenzo finora, ma tanto bastano – per ora, s’intende – a dare vita a un corpus di opere coeso e compatto, forse provocatorio e poco incline a donare risposte precise. Una filmografia che mette in discussione il nostro luogo di appartenenza, che ci ha definito, e quindi la nostra identità. Una filmografia che appartiene al mondo delle emozioni ed è più interessata a porre domande sulla nostra sensibilità. E non è forse questo il compito più scomodo dell’arte?
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