Quello di “film minore” è un concetto complesso. Spesso considerato come titolo non al livello del resto della filmografia di un determinato autore, esso andrebbe visto invece, più razionalmente, come film produttivamente più piccolo, sul quale gravano meno aspettative e poco considerato dal dibattito pubblico sul regista in questione. Può quindi essere il caso di Lupin III – Il castello di Cagliostro, esordio alla regia di un lungometraggio di Hayao Miyazaki.
In occasione del successo della sua ultima opera, Il ragazzo e l’airone (in corsa fino all’ultimo giorno agli Oscar 2024), e soprattutto del suo ritorno in sala per il quarantacinquesimo anniversario, appare opportuno soffermarsi brevemente su quello che forse non sarà il film migliore del cineasta nipponico ma che sa racchiudere, anni prima della nascita dello Studio Ghibli, l’essenza del suo cinema.
Il ladro cambia il pelo e un po’ anche il vizio
Quello de Il castello di Cagliostro non fu il primo incontro tra Miyazaki e il ladro gentiluomo. Già nel 1971, infatti, insieme Takahata, aveva diretto poco più di una decina di episodi della prima serie di Lupin III – e tornerà a dirigerne due, della seconda, nel 1980. Conosceva già il personaggio, le sue caratteristiche visive e psicologiche, le sue ragioni e il cast di comprimari che gli gravitavano attorno. Proprio tale conoscenza pregressa, considerata anche quella relativa al manga, non poteva soddisfarlo: il furfante creato da Monkey Punch, invero, non incarnava l’idea di eroismo dell’animatore, già solida al tempo.
Ecco che il film del 1979 rappresenta non solo un incipit, un’introduzione per tutto il suo lavoro successivo, ma uno dei più importanti e decisivi punti di svolta per il personaggio e la sua rappresentazione – che tornerà sui atmosfere più pulp solo con Koike e La donna chiamata Fujiko Mine. Miyazaki vuole il suo Lupin e ne riscrive, parzialmente, i caratteri, adattandoli alla sua idea. A dominare è un sano umorismo – che, con il tempo, diventerà tra i segni distintivi delle avventure animate del protagonista – e un tono scanzonato, in netta contrapposizione con ciò che si era visto fino ad allora.
Lupin viene ammorbidito sia negli atteggiamenti, prima privi di scrupoli, che nelle movenze, più slapstick e goffe, oltre che nelle sembianze, levigati i tratti spigolosi dei primi anni con quello che, oggi, risulta un trattamento delle fisionomie tra i più riconoscibili ed efficaci. Da donnaiolo legato solo al denaro, Lupin si trasforma in benefattore ottimistico e idealista; certo, interessato ancora alla ricchezza e al rifiuto delle regole ma meno distante dalla gentilezza e dal sacrificio. Il regista giapponese ne mantiene i tratti fanfaroni e bohèmien ma gli dona cuore e motivazioni più nobili.
Un castello sospeso e in equilibrio
Questo cambio di rotta sul protagonista, permette a Miyazaki di dar spazio a quella che appare, oltre la superficie, come la vera figura centrale dell’opera. Clarisse rappresenta il personaggio femminile miyazakiano per eccellenza, innocente ma coraggiosa, sognatrice ancora giovane ma già in lotta per la libertà. La sua natura eterea e onesta si mostra come diametralmente opposta a quella di colei che al tempo era l’unica donna con un ruolo rilevante nel gruppo, Fujiko. Quest’ultima, più provocatrice e disinvolta opportunista, può trovare uno spazio solo ridotto nelle idee dell’animatore premio Oscar, e proprio per sottolineare il contrasto con Clarisse è relegata ad un ruolo più che marginale, fine condivisa con Goemon e Jigen.
Sembra così chiara la volontà dell’autore di spingere sul legame tra Lupin e la ragazza, focalizzandosi sulle loro aspirazioni e le emozioni condivise. Sentimenti mai esplicitati ma chiari in ogni momento, evidenti nella costruzione della singola scena, nel linguaggio dei corpi animati, senza il bisogno di ricorrere alle parole. E quando esse si faranno più manifeste – «Portami via con te, non sono una ladra ma posso imparare!» – colpiranno fortissimo.
Quello che ad un primo sguardo sembrerebbe un corpo estraneo nella carriera del cineasta, anche grazie a siffatte scelte si pone pienamente in linea con i suoi futuri lavori, specialmente se si tiene conto del tono generale dell’opera. Il castello di Cagliostro, infatti, non mette da parte l’impianto collaudato delle storie di rapina e imbrogli ma lo ammanta con un’atmosfera favolistica che ne annulla quasi i connotati spazio-temporali, elemento di primaria importanza nel Miyazaki che verrà. Unanimemente riconosciuto come maestro nel creare mondi di straordinario impatto visivo, il nipponico aveva già chiare le idee nel suo esordio, sei anni prima della nascita dello studio che ne ha reso celebre il talento. La qualità fluida delle sue costruzioni dilaga tra castelli in cui perdersi, torri e ingegnosi passaggi segreti, rovine antiche e paesaggi incantevoli, mai soltanto sfondi ma veri organismi a sé.
Una libertà creativa e una passione per il dettaglio che non si sprigionano sregolate ma che raggiungono un perfetto equilibrio perché legate al microcosmo di Lupin e delle sue avventure, ad un materiale non creato da zero ma al quale fare necessariamente riferimento anche quando esso sembra in parte sovvertito. Miyazaki, a metà tra la sua fantasia e il realismo, se così lo si può chiamare, dei colpi e delle ambientazioni tipiche della serie, mette in scena la miglior incarnazione cinematografica del personaggio. E qui torna ancora Clarisse, come già visto tutt’altro che una comprimaria: divisa tra ordine e caos, rassegnazione e ribellione, compostezza e sregolatezza, luce e ombra, rappresenta quell’equilibrio che l’intero titolo esprime e un’ideale sineddoche filmica.
Ghibli prima di Ghibli
L’esordio di Miyazaki ha al suo interno tutti i temi cari all’autore, immagini e temi che torneranno in seguito, amplificati da una carriera che spiccherà da lì a poco il volo. Un cinema che sfrutta i suoi protagonisti per mettere in discussione il senso dell’esistenza e le azioni dei singoli, che trova in Lupin III un soggetto ideale, individuo complessissimo dietro l’apparente staticità. Il castello di Cagliostro, come già detto, non dimentica però la sua natura e offre un intrattenimento e una spensieratezza da manuale, bilanciati alla perfezione con la quiete. L’azione strampalata e rocambolesca resta però al centro, con le funamboliche vicende del ladro protagoniste dell’animazione. La visione varrebbe la pena, in tal senso, anche soltanto per lo straordinario inseguimento iniziale a bordo della Fiat 500: un senso dell’azione e del divertimento coinvolgenti e una sicurezza tecnica ancora oggi sbalorditiva.
Ci sono il volo e gli elicotteri, il sentimento platonico, l’avidità dell’uomo e la giustizia – si potrebbe citare la vicenda collaterale di Zenigata, dell’Interpol e della Zecca clandestina – il fascino degli ambienti nei quali far muovere i suoi eroi, i momenti di pace nel godimento delle piccole cose. Un viaggio, quello del protagonista verso il Ducato di Cagliostro (che ci sia davvero, visto l’interesse dell’autore per gli scenari vagamente europei, un legame con l’Italia o con San Marino?), che parte da una fuga, arriva in un territorio nuovo e imprevisto un micromondo, quello del castello, ricco di marchingegni da scoprire – per poi trovare la meraviglia estatica dell’incontro con l’ignoto, le rovine sommerse, e il calore un abbraccio.
Tesori dal valore inestimabile, che nessuno è in grado di rubare o comprare. Tutti elementi che, senza sforzarsi troppo, si ritroveranno, qualche decennio dopo e con una diversa maturità drammaturgica, in opere come, per dirne una tra le più note, La città incantata.
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