Mike: “Uccidere o morire in montagna o nel Vietnam è esattamente la stessa cosa. Ma deve succedere lealmente.”
Nick: “Come? Un colpo solo?”
Mike: “Un colpo solo.”…
… Nick: “A me piacciono gli alberi, capisci? Come sono gli alberi sulle montagne, sono diversi. Come sono gli alberi. Dico un sacco di stronzate eh?”
Mike: “Sei il solo con il quale vado a caccia volentieri. Mi piaci perché hai qualcosa dentro. Io non vado a caccia con gli stronzi.”
C’è uno strappo narrativo indimenticabile ne Il cacciatore, che arriva inaspettato, violento, a squassare la scena di alcuni amici in un bar, annunciato dal rumore delle pale di elicottero. Le stesse che l’anno successivo avrebbero contraddistinto il delirio alcoolico di Willard/Martin Sheen nell’incipit di Apocalypse Now. Forse non proprio inaspettato quello strappo visto il clima di minacciosa attesa che vige tra i compagni di bevute, accompagnati al piano da una triste suonata di Chopin eseguita da uno di loro. Ma l’effetto sullo spettatore è comunque quello di essere strappati brutalmente da una comfort zone per essere proiettati in un vero e proprio inferno. Questo fu l’effetto del film di Michael Cimino sugli spettatori che andarono a vederlo all’inizio del 1979, dopo due anteprime a Los angeles e New York l’8 dicembre del 1978, in tempo per poter rientrare nella corsa agli Oscar.
Scrivere del Cacciatore dopo 45 anni non è semplice perché il capolavoro di Cimino, riproposto nelle sale in versione restaurata 4K in questi giorni, è diventato un monumento della storia del cinema, sebbene al momento dell’uscita provocò molte polemiche, per lo più ideologiche, lontane da quello che è il cuore del film. Non vogliamo però riportare il dibattito politico, spesso sterile, sorto all’epoca, né addentrarci nella fin troppo ricca aneddotica legata alla sua lavorazione, rinvenibile facilmente in rete. Cercheremo invece di avvicinarci, per quanto possibile e senza pretesa di esaustività, al senso del film.
La roulette russa
Se da un lato vogliamo evitare di mettere in una teca museale la pellicola cult che nel 1979 vinse 5 premi oscar (tra cui miglior film e regia), dall’altro non possiamo ignorare che nel cuore di molti cinefili, compreso quello di chi scrive, Il cacciatore occupa un posto molto speciale. Ricordato spesso come primo film ad aver messo in scena gli orrori della guerra in Vietnam, in realtà Il cacciatore è un tragico, crudo e al tempo stesso dolce e struggente inno all’amicizia, alla giovinezza e all’innocenza perduta di una generazione di americani. La guerra, come giustamente sottolineato da Quentin Tarantino nel recente volume Cinema Speculation, è soltanto un evento/pretesto traumatico che irrompe nella quotidianità degli amici Nick, Mike e Steve che ne usciranno definitivamente trasformati nel fisico e nella psiche.
Poteva essere qualcos’altro a squassare la placida vita di provincia dei tre amici della Pennsylvania ma, trovandoci nella seconda metà degli anni Settanta, Cimino sceglie giustamente, come strappo nella vita dei personaggi, la guerra in Vietnam (appena conclusa con una disfatta), incubo dal quale la generazione di quegli anni non si era ancora risvegliata o comunque col quale non aveva ancora fatto i conti. La metafora della roulette russa, scena-madre per cui il film viene ricordato, sembra perfetta al cineasta italo-americano per suggerire la casualità con cui si può morire in guerra, nonché l’attesa della morte stessa. Quest’ultima è infatti, nelle parole del regista, ben più logorante dell’orrore che viene consumato nel corso di uno scontro armato che, per quanto terribile, può essere concitato e veloce.
E il proiettile nel tamburo della pistola pronta a sparare fu certamente un’efficace metafora del destino di centinaia di migliaia di giovani americani mandati a morire in quella che era la gigantesca roulette russa rappresentata dalla guerra nel sud-est asiatico. Dunque, sebbene non nasca come film sul conflitto in Vietnam, Il cacciatore finisce per esserne una valida metafora, intercettando perfettamente il disagio di un’intera generazione che aveva perso fiducia nel governo dopo lo scandalo del Watergate e la gestione disastrosa e iniqua di una guerra lontanissima da casa, di cui si erano smarrite le ragioni.
Quattro amici al bar
Per chi non la conoscesse, ecco due parole sulla trama, premettendo che, dopo 45 anni gli spoiler cadono in prescrizione. Tre amici per la pelle, di etnia russa, Michael “Mike” Vronsky (Robert De niro), Nikanor “Nick” Chevatorevich (Cristopher Walken) e Steve Pushkov (John Savage), impiegati nelle acciaierie del piccolo paese di Clairton, Pennsylvania, devono partire per il Vietnam, ma non prima che Steve sposi la fidanzata Angela e che tutti quanti, insieme con gli altri amici Stan (John Cazale), John (George Dzundza) e Axel (Chuck Aspegren), vadano sulle montagne per un’ultima caccia al cervo, che Michael vive in modo sacrale.
In Vietnam i tre amici vivono una terribile esperienza come prigionieri dei Viet Cong, che li sottopongono alla terribile tortura psicologica della roulette russa, in cui ci si gioca la vita tirando il grilletto di una pistola puntata alla propria tempia, caricata con unico proiettile infilato casualmente nel tamburo. Grazie al coraggio e alla determinazione di Mike i tre amici riescono a fuggire ma Steve rimarrà invalido mentre Nick ne uscirà psicologicamente traumatizzato, al punto da rimanere a Saigon ad esibirsi a pagamento, in sordide bettole, proprio nel gioco della roulette russa. Toccherà a Mike, unico psicologicamente ancora saldo, andarlo a riprendere, ma forse è troppo tardi.
I rituali
È stato rimproverato più volte a Cimino il suo indugiare eccessivo sulla scena del matrimonio tra Steve e Angela, che occupa quasi tutta la prima parte del film. Se guardiamo anche ai film successivi di Cimino (pensiamo alle scene della festa di laurea e del ballo nel bistrattato, maledetto e bellissimo I cancelli del cielo), è facile intuire come il cineasta sia massimamente interessato ai rituali collettivi che definiscono una comunità.
Per la sua visione era assolutamente necessario dunque dedicare ampio minutaggio al matrimonio ortodosso dei due giovani personaggi, sia per mostrare il modo in cui i protagonisti sono inseriti nel particolare microcosmo della comunità russa, sia come tutto questo verrà poi spazzato via dalla tragedia della guerra, preconizzata dalla goccia di vino che i due sposi faranno cadere sul vestito immacolato di Angela nel corso di un rituale che prevede la bevuta contemporanea da un doppio calice unito alla base. Quel vino rosso che, inquadrato con uno strategico dettaglio visivo, sporca impercettibilmente il vestito da sposa ricorda volutamente una goccia di sangue.
Un colpo solo
Come accennato all’inizio, Il cacciatore è un inno all’amicizia, rappresentato alla perfezione dall’iconica scena del biliardo in cui il gruppo di amici, già bevuti, si esaltano, ballando e cantando sulle note della celebre Can’t take my eyes off of you, cantata dai Four Seasons di Frankie Valli. Se si è mai vissuto nella vita un momento di cameratismo e complicità con un gruppo affiatato di amici, questa ne è una delle rappresentazioni più autentiche, sincere e commosse.
Ma da questo punto di vista è il dialogo iniziale tra Nick e Mike, di cui abbiamo riportato uno stralcio in esergo a questo articolo, che definisce perfettamente la filosofia alla base del film, quella del colpo solo, nonché della condivisione di una sensibilità: la caccia al cervo vissuta come uno scontro leale con la Natura, nel corso del quale il cacciatore deve disporre di un unico colpo per abbattere l’animale, altrimenti non sarebbe leale. In aggiunta la condivisione di una particolare sensibilità, espressa dalla battuta sugli alberi, che eleva Nick e Mike al di sopra degli altri goliardici amici, proiettandoli in una dimensione metafisica, evidente nella messa in scena della caccia.
Quando vediamo Mike, stagliato sul cielo, appostarsi in posa ieratica per sparare al cervo, egli non è più soltanto un giovane americano che sta cacciando, ma diventa il cacciatore mitologico per antonomasia, l’archetipo universale di chi compie un sacrificio violento ma necessario, fondante per una comunità che, dalla notte dei tempi, necessita di capri espiatori per ritrovare coesione e superare le crisi. Una sfida eterna e immane tra l’uomo e la Natura, il Mondo, forse Dio in persona. Quando ci si confronta con tali archetipi non può esserci inganno, deve bastare un colpo solo. In questa dimensione Mike e Nick non cacciano solo il cervo ma sono cacciatori di bellezza, così come Cimino ricerca in ogni inquadratura, in ogni storia, la bellezza assoluta del mondo che ci circonda e che sembra essere indifferente alle nostre vicende.
Le montagne Nick!
Il paesaggio svolge infatti un ruolo fondamentale nella messa in scena di Cimino, fin dall’incredibile attacco del suo film d’esordio precedente, Una calibro 20 per lo specialista (in originale Thunderbolt and Lightfoot), prodotto e interpretato da Clint Eastwood, che aveva visto nel giovane regista italo-americano un talento non comune. E così le montagne della Pennsylvania ne Il cacciatore non sono semplici scenari naturali ma divengono teatro ideale e mitico di un confronto eterno tra l’uomo e il mondo naturale: la bruma che si poggia sulle cime, lo sguardo del cervo, risparmiato nella seconda caccia, successiva all’esperienza nel Vietnam, sono vissute da Mike come esperienze interiori, da condividere solo con chi ne può intuire la portata universale, ovvero Nick. È per questo che Mike non può fare a meno di tornare in Vietnam per cercare di riportare l’amico in patria. Ma Nick è ormai perduto e Mike non potrà fare altro che viverne la fine, fino alle estreme conseguenze.
Piccoli gesti e grande messa in scena
Il cacciatore, come gli altri film di Cimino, vive al tempo stesso di una dimensione intima e corale, personale ed universale. La maestosità della sua messa in scena, del suo sguardo, dalle scene di massa ai paesaggi montani spettacolari, fino agli orrori della guerra, fa da contrappunto ad una attenzione ai dettagli intimi, ai piccoli gesti, agli sguardi di un cast in stato di grazia. De Niro, Walken, Savage, Streep, il compianto, strepitoso e mai troppo ricordato John Cazale (compagno della Streep, malato terminale all’epoca delle riprese che morì infatti poco dopo), colti al massimo del loro fulgore, messi insieme come in una squadra di soli fuoriclasse che in questo film danno il meglio nelle sfumature, nei gesti e negli sguardi impercettibili.
Indirizzati e sostenuti da un Cimino capace di dare rilievo a momenti di rara verità: l’inebetita disperazione di Nick nell’ospedale militare di Saigon, l’esitazione di Mike ad incontrare gli amici al ritorno nel paese dopo l’esperienza del Vietnam, l’imbarazzo reale di Linda (Meryl Streep) nel prendersi confidenza fisica con l’uomo del quale era da sempre attratta, ma del cui migliore amico era fidanzata, i loro momenti di intimità, così pudici eppure così languidi, lo sguardo affettuoso di Mike verso Nick (ripresi entrambi in un’unica incredibile inquadratura dalla grande profondità campo ottenuta probabilmente con speciali lenti dioptiche) al bar, poco prima di partire per il Vietnam, mentre John suona Chopin al piano. Tantissimi momenti resi magistralmente da Cimino con un’attenzione partecipe ai sentimenti dei personaggi e, al tempo stesso, agli sconvolgimenti collettivi e antropologici. Senza inutili arzigogoli della trama, portando lo spettatore al centro della verità emotiva dei personaggi e degli eventi con semplicità e cruda efficacia.
God Bless America
Nella scena finale, John (George Dzundza) impegnato nel retro del suo bar a preparare una frittata, sconvolto dopo il funerale di Nick, inizia a cantare God Bless America (brano patriottico per eccellenza scritto nel 1918 da Irving Berlin) e gli altri amici, seduti al tavolo, gli rispondono, proseguendo il canto sommesso. Questa scena dolorosa e intima si trasforma così nel canto funebre di una generazione che ha appena perso la propria innocenza. Quel God bless America, lungi dall’essere una esaltazione retorica dello spirito patriottico americano (come fu detto all’epoca da alcuni), diventa semplicemente qualcosa a cui potersi appigliare, un riferimento morale ed emotivo che possa ancora dar coesione a un gruppo ormai distrutto psicologicamente.
E quell’ultimo brindisi a Nick diventa un brindisi ad ogni giovane che si è perso in Vietnam e ad ogni persona che ha smarrito il senso del proprio essere in un mondo allo sbando. Strano e piacevole cortocircuito filmico da rilevare: pochi anni dopo, quella stessa canzone verrà ripresa in un altro film, ancora con De Niro, e precisamente nel pre-finale di C’era una volta in America: anche lì il brano era il segno della fine di un mondo, nonché una cesura storica importante (la fine del proibizionismo), con cui Sergio Leone raccontava al tempo stesso il fulgore e il crepuscolo del sogno americano. E Cimino, con la sua ricerca ossessiva di bellezza, con la messa in scena grandiosa e al tempo stesso intima, con la sua coraggiosa fiducia nella forza delle immagini, lo aveva raccontato a sua volta, in modo struggente e indimenticabile nel Cacciatore.
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