La presa di coscienza è arrivata improvvisa, come il proprio nome chiamato a gran voce durante la scelta dei Tributi per una nuova edizione degli Hunger Games. Inaspettata, inizialmente capace di prendere alla sprovvista, eppure punto di partenza per segnare irrevocabilmente qualcosa di importante. Per Katniss, la giovane protagonista della saga, la sua partecipazione ai 74esimi Hunger Games è l’inizio della storia. Per noi, che nel 2009 leggevamo per la prima volta il romanzo di Suzanne Collins e nel 2012 riempivamo le sale per vedere sul grande schermo una giovane Jennifer Lawrence pronta a dare una svolta alla sua carriera, è stato l’inizio di un vero fenomeno.
Perché la saga di Hunger Games, che prosegue oggi al cinema con un prequel, diretto ancora una volta da Francis Lawrence, dal titolo La ballata dell’usignolo e del serpente, dopo l’exploit di qualche anno fa è rimasta sotto pelle, come tutte le storie che hanno, in qualche maniera, forgiato le nuove generazioni. È rimasta per anni silenziosa, come se non contasse più niente, prima di riesplodere in tutto il suo splendore. Perché è così che fanno le storie che non solo creano un immaginario, ma risultano generazionali. Riesplodono.
Fame di vita
Tra le saghe di genere Young Adult che hanno spopolato dieci anni fa, Hunger Games è forse quella più iconica, e anche la più riuscita. Merito di un’idea che, per quanto non particolarmente innovativa (non serve ricordare quanto la saga di Hunger Games ricordi le premesse e il messaggio di Battle Royale, vero caposaldo della letteratura e del cinema giapponese) è riuscita a colpire in maniera perfetta il sentimento comune adolescenziale di quegli anni.
Hunger Games è, prima di tutto, una storia di sopravvivenza. Lo è nella dimensione più ludica, quella dei Giochi che, anno dopo anno, obbligano ventiquattro giovani tra i 12 e i 18 anni a uccidersi tra di loro in un’arena, fino a proclamare un vincitore, il solo superstite. Ma lo è anche per tutti i poveri cittadini di Panem, la nazione immaginaria la cui capitale è Capitol City, che non possono far altro che rispettare silenziosamente il destino a loro riservato dal Presidente Snow. E, infine, è una storia di sopravvivenza per la stessa Capitol City, che col terrore e la propria ricchezza si erge in cima alla piramide e deve fare di tutto per evitare la sua caduta.
In questo mondo di fragili e violenti equilibri, Suzanne Collins ha reso Hunger Games una saga in cui la morte è onnipresente. Senza censure, senza il desiderio di renderle un semplice espediente narrativo, l’ansia e la paura di morire caratterizzano l’universo di Hunger Games, con il risultato di rendere la saga più matura del previsto per il pubblico a cui si rivolge. Una necessità di sicuro, ma anche un atto di fiducia comunicativo tra l’autrice e i suoi lettori, come a ridare dignità agli adolescenti, anche se soffocati da un mondo adulto a loro incomprensibile a cui non possono far altro che resistere, il più delle volte in maniera silenziosa.
Adolescenti che sono semplici pedine di un gioco a cui non vogliono partecipare, personaggi di un reality show violento e non persone con una propria dignità. La distopia è quella di un regime totalitario di una nazione immaginaria, ma il fondo di realtà rimane. Hunger Games è riuscito a dialogare con gli adolescenti con una schiettezza sconcertante, ridando loro vita in un mondo che gliela divora.
Giovani ribelli
La ribellione guidata da Katniss, straordinaria eroina contemporanea il cui modello è stato ripreso in altre opere ma mai lontanamente superato, diventa quindi una dimostrazione di rendere presente la propria esistenza, con la forza di un tornado di energia vitale. Quello che viene raccontato nel corso della trilogia (e nei primi quattro film) è la storia di un’adolescente che finalmente ha il coraggio e la forza di parlare in un mondo di adulti che esigono la bocca chiusa. Una metafora a dimensione di giovane non troppo diversa da quella presente anche in un altro fenomeno cinematografico – tutto italiano – di queste ultime settimane, ovvero C’è ancora domani di Paola Cortellesi e non troppo diverso dal finale raccontato nel film Barbie, campione d’incassi del 2023. Segno che Hunger Games ha anticipato un discorso che oggi si dimostra sempre più urgente e sentito.
Quando la voce di una protagonista di finzione diventa voce di milioni di adolescenti, ecco che si crea il fenomeno generazionale. Nell’immediato è un insperato boost di vendite e di amore verso il tiro con l’arco (l’arma che usa Katniss e che diventerà il suo simbolo), ma piano piano diventa un universo narrativo su cui vengono compiuti studi accademici: il mondo di Panem diventa specchio per gli adolescenti per capire e comprendere al meglio i problemi dell’America di oggi (che è quello che ha fatto la professoressa Stef Woods).
Come se non bastasse, il saluto delle tre dita con la mano che i protagonisti compiono durante i film e i libri è diventato simbolo di rivolta anche nel mondo reale, specialmente in Oriente, tra i movimenti pro-democrazia asiatici, ma anche nelle Filippine e talvolta pure in America per esprimere dissenso verso l’autorità. Segnale inequivocabile di come Hunger Games abbia un posto importante nell’immaginario culturale del nuovo millennio, tanto da diventare voce politica.
L’amore divora il mondo
Come nella migliore tradizione delle storie capaci di colpire un pubblico vastissimo, anche in Hunger Games è presente una storia d’amore, con i più classici topoi del triangolo sentimentale (che forse, soprattutto nei film della quadrilogia, è l’unico elemento gestito non nel migliore dei modi). Eppure questa presenza così forte del sentimento d’amore si dimostra ancora una volta essenziale ai fini della narrazione. Come fosse l’unica ancora di salvezza nei confronti della morte, della violenza e del silenzio. Come se fosse l’obiettivo finale di ogni azione compiuta. Si vive per amore e si ama per vivere.
Non è un caso che la trilogia originale (e i quattro film che l’hanno adattata) si concludano con un balzo in avanti di 15 anni, dove Katniss e Peeta finalmente sono riusciti a vivere come meglio desideravano. E non è un caso che la Ballata dell’usignolo e del serpente, prequel che racconta come Snow è diventato Presidente di Capitol City abbia una storia d’amore come perno centrale delle vicende. Al di là dell’epilogo, che può essere positivo o negativo, la sensibilità nei riguardi di questo sentimento, aggiunge un ulteriore tassello all’importanza della saga. Perché l’amore diventa comprensione, ma può divenire anche motore del male. Quasi fosse un altro modo di chiamare la fortuna, quella che nel mondo antico, descriveva sia la buona che la cattiva sorte.
Nessuno ne è esente, anche se a prima vista potrebbe non sembrare così (e la scelta di usare come protagonista Snow per il prequel dona una nuova essenziale luce alla saga). In Hunger Games c’è chi ama e chi ama troppo, e quel troppo può rovesciare la medaglia. Un discorso che, anche in questo caso, sembra sempre più contemporaneo e stimolante da affrontare (basti vedere il finale della celebre serie de L’attacco dei giganti, che estremizza tematiche molto dense sempre per un pubblico di giovanissimi), che rende Hunger Games un evergreen incapace di risultare fuori dal tempo. Perché non si può fare a meno di amare, soprattutto in un mondo distopico che sembra non appartenerci, costi quel che costi. Allora, ancora una volta, felici Hunger Games e possa la fortuna essere sempre a vostro favore!
E voi cosa ne pensate? Siete d'accordo con le nostre riflessioni?
Se volete commentare a caldo questo articolo insieme alla redazione e agli altri lettori, unitevi al nostro nuovissimo gruppo Telegram ScreenWorld Assemble! dove troverete una community di persone con interessi proprio come i vostri e con cui scambiare riflessioni su tutti i contenuti originali di ScreenWorld ma anche sulle ultime novità riguardanti cinema, serie, libri, fumetti, giochi e molto altro!