C’è una parola che spesso accostiamo al cinema americano, al western o ai suoi derivati. Maverick. Un termine che ci fa venire alla mente Top Gun, o per i più adulti l’omonimo film con Mel Gibson e Jodie Foster, un western anni ’90 a sua volta ispirato a una serie tv anni ’60. La parola però ha un significato preciso, che di fatto è accostabile al cinema della frontiera: vuol dire capo di bestiame non marchiato, quindi che non appartiene a nessuno. Traslando il significato all’economia significa imprenditore indipendente, freelance, ma col tempo ha assunto la sfumatura di ribelle, cane sciolto, anticonformista.
Maverick è una definizione che si può benissimo affibbiare a Kevin Costner, uomo di cinema che non è solo un attore che ha definito il divismo americano tra gli anni ’80 e i ’90, ma anche regista e produttore che la sua idea di cinema l’ha perseguita costante lungo i lustri, anche quando il vecchio West, che quell’idea l’ha sempre formata, era passato di moda. Il Maverick è uno che rischia sulla propria pelle senza paracadute ed è ciò che è accaduto a Costner proprio con quello che è il suo passion project, l’opera a cui ha dedicato gli ultimi 35 anni anche a costo di fallire e perdere tutto, ovvero Horizon, una saga americana in quattro film, il cui costo complessivo previsto è di più di 200 milioni di dollari, di cui 100 già spesi per la realizzazione dei primi due film. È anche però uno che non si arrende mai e riesce a tramutare le sconfitte in successi: mentre la parte I ha finito il suo percorso nelle sale, la parte II, che sarebbe dovuta arrivare a ferragosto, è stata rinviata a data da destinarsi, causa flop. Dal fallimento però sono sorti due colpi di scena: il successo del film in streaming e l’invito a mostrare la seconda parte (in maratona con la prima) alla Mostra del Cinema di Venezia.
Cause e conseguenze
Facciamo un po’ di ordine: l’idea nasce nel 1988, prima che il nostro eroe vincesse sette Oscar con Balla coi lupi, con l’ambizione di unire la vera storia del West e la mitologia del cinema americano a riguardo. Dapprincipio doveva essere un solo film, ma la storia si ampliò fino a raggiungere il volume di quattro film separati, pensati per la sala cinematografica. Dopo l’uscita di Open Range, nel 2003, The Walt Disney Company si dice interessata, ma presto Costner si accorge di limitazioni di budget e libertà per lui poco accettabili, così poco a poco si convince, anche dopo l’arrivo a bordo del co-sceneggiatore Jon Baird, che il film deve produrselo da solo, senza l’intervento decisivo di una major: investe 38 milioni di dollari personali e comincia a lavorare a Horizon, le cui riprese finalmente cominciano nell’agosto del ‘22 non senza problemi. Territory Pictures, la società di Costner, si occupa della produzione, assieme al finanziamento di due donatori anonimi, a cui si aggiungono per la distribuzione New Line Cinema e Warner Bros, il cui coinvolgimento è appunto molto limitato.
All’inizio del ’24, tutto sembra pronto per girare e distribuire i quattro separati film nel corso di poco più di un anno, a quattro o sei mesi l’uno dall’altro: il primo film viene presentato a Cannes fuori concorso, riceve un’accoglienza modesta, primo indizio della débacle, ma nonostante tutto Costner e soci sono pronti per uscire in sala a fine giugno col primo film e il 16 agosto col secondo. Horizon però, assecondando le analisi degli esperti è un flop, quasi un disastro: in tutto il mondo, dopo un mese dall’uscita, incassa solo 32,5 milioni (al momento in cui scriviamo), di cui appena 4 nel resto del mondo, con una perdita di circa 100 milioni (compresi i costi di distribuzione e tasse, non solo il budget di produzione e marketing) solo per il primo film. New Line corre ai ripari e blocca la distribuzione del secondo film, rinviandola a data da destinarsi, tra la delusione dei cinefili. L’obiettivo è quello di guadagnare un po’ con lo streaming, per capire se per un’opera così fuori dal tempo ci sia ancora un pubblico.
Come si salva il West
Costner sta affrontando una crisi finanziaria senza precedenti, come riporta la pagina finanziaria Radar Online, che mette a rischio la proprietà immobiliare di Santa Barbara del regista, e il futuro del suo progetto del cuore è in pericolo: cosa può accadere? È accaduto che in VOD, ossia Video on Demand, il film è stato un successo, da solo forse non basterà a risollevarne le sorti, come afferma Screen Rant, ma ha fatto circolare di nuovo il film e il nome del suo realizzatore, lo ha reso interessante per quello che forse oggi è il suo pubblico. Forse non lo riporterà in sala con la pompa magna prevista, ma sicuro gli potrebbe far avere un solidissimo accordo con Paramount per la distribuzione in streaming.
Qualcuno ha tirato in ballo Waterworld, il kolossal che nel 1995 rischiò di travolgere la carriera di Costner, il film allora più costoso di sempre (175 milioni di dollari) che incassò al cinema “solo” 264 milioni di dollari: Warner tenta così di lanciare il film sulle piattaforme digitali, attraverso il video on demand, per racimolare qualche dollaro e sperare in una nuova vita prima di puntare alla sala con il Capitolo II. È una scommessa rischiosa, che potrebbe funzionare in virtù della passione del pubblico televisivo e dello streaming per il western, lo stesso Costner è tornato in auge – e quindi ha potuto portare a casa Horizon – grazie al successo di Yellowstone (e le controversie sull’ultima stagione, sono tra i motivi del ritardo nella realizzazione), ma tirare in ballo il fantasy acquatico di Kevin Reynolds è fuori luogo, perché alla fine della corsa, grazie anche ai profitti dell’estero e della vendita in home video, il film – che comunque aveva incassato 10 volte di più di Horizon – è diventato un film profittevole. Oggi, con un altro mercato, questo è più di un sogno, è una chimera: il cinema di cowboy e fuorilegge sembra non avere più un posto nell’immaginario degli spettatori del grande schermo, sembra una roba per adulti pantofolai, quella che negli USA definiscono daddy tv.
Eppure, proprio questa chimera è la ragione per cui, al netto di quanto Horizon ci piaccia (a chi scrive, non poco), non possiamo smettere di amare Costner e i Maverick, come Coppola che si impegna casa e vigne per realizzare Megalopolis: in un’era in cui il neo-liberismo, il capitalismo finanziario, la globalizzazione eccetera ha reso il cinema di serie A una questione di algoritmi e tabelle, di scelte obbligate e ossequio al gusto popolare, c’è chi respira cinema da decenni e decide che è suo dovere fare di tutto affinché i propri progetti possano vedere la luce. E qui si inserisce il secondo colpo di scena: Alberto Barbera, direttore della Mostra del Cinema di Venezia, ha invitato a sorpresa fuori concorso Horizon parte II a chiusura del festival, il prossimo 7 settembre. La motivazione: “rende un sentito e rispettoso omaggio al progetto visionario di un grande attore e regista”. Nulla di più semplice.
Perché quello di Costner e di Horizon non è il modo giusto di fare film, né probabilmente il modo migliore, anzi, forse è il contrario. È però semplicemente il modo che da romantici continua a farci battere il cuore e correre in sala, a pagare un biglietto. Come se i nostri 8/10 euro potessero almeno un po’ aiutare il cuore e i sogni di questi cani sciolti, che ci piace continuare a chiamare maverick.
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