Ciclicamente il cinema del Sol Levante torna a ragionare sul trauma della guerra, sui disastri atomici e le scorie lasciate delle tragedie che hanno colpito il Giappone e i giapponesi. Lo fa dall’immediato dopoguerra e continua, con forme e linguaggi differenti, a metterlo in scena per ricordare, esorcizzare, puntare il dito.
Casi esemplari che dall’animazione (Una tomba per le lucciole di Hayao Miyazaki o Gen di Hiroshima di Mori Masaki) passano al Cinema più tradizionale – la trilogia de La condizione umana di Masaki Kobayashi, passando per molte delle opere di Kinji Fukasaku. Tra queste c’era anche Fires on the Plain di Kon Ichikawa, di cui Shinya Tsukamoto realizzò un remake come primo capitolo di una trilogia proseguita con Killing. Dopo il passaggio nella sezione Orizzonti di Venezia 80 (posizionamento che già allora parve scellerato), arriva nelle sale italiane l’ultimo atto del trittico dedicato alla violenza e alla guerra, Hokage – Ombra di fuoco.
Subito dopo Hokage, il distributore italiano del film (Cat People) porterà in sala nove dei titoli più importanti di Tsukamoto, molti dei quali inediti in Italia: tra essi l’esordio seminale Tetsuo e gli straordinari Kotoko, A Snake of June e Tokyo First.
Le vicende sono quelle di una giovane donna portata a vendere il proprio corpo per sopravvivere tra le fragili mura di un tugurio. La sua vita sembrerà cambiare quando un orfano e un soldato inizieranno a farle visita: la ricerca di rifugio e conforto creerà una sorta di nuovo e inatteso nucleo familiare che possa sovrapporsi a quello perduto durante durante il conflitto, ma certi demoni interiori non tarderanno a palesarsi.
Genere: Drammatico
Durata: 95 minuti
Uscita: 13 Marzo 2025 (Cinema)
Cast: Shuri, Ouga Tsukao, Hiroki Kono
In balia delle tenebre

Sembra quasi di vedere uno Tsukamoto diverso. Buona parte del primo atto di Hokage è una sorta di requiem, una litania che impietosamente accompagna le vite – se possono definirsi ancora tali – spezzate di chi è rimasto, di chi non è stato inghiottito dalla fame della guerra. Il setting passa dalla follia dell’epilogo del secondo conflitto mondiale di Fires on the Plain a ciò che resta di quel caos una volta esaurito. Dall’estroflessione allucinogena alle parole strozzate, all’essenzialità segnica delle ombre di un fuoco che ha portato con sé tutto, dal quale non si torna indietro.
Un fuoco che non va più via dalla mente di chi ha sperimentato il dramma. Una fiamma rovente che torna e si espande per rendere quei frammenti di sopravvivenza rimasti un inferno. Tracce che, sparute, riaffiorano e affliggono, siano esse l’addestramento di una vita passata o i traumi della devastazione. Così uomini e donne sembrano dominati da un male che li divora dall’interno, inesplicabile (facile pensare ai disagi psicologici di Kotoko), che alterna stati di spegnimento catatonico a fasi di fulminea veemenza.
Tsukamoto però racconta questi eventi con un afflato più intimista e umanista rispetto al passato, di rado esplicitato analogamente nella sua filmografia. L’estremismo scenico lascia in parte il posto all’indagine sui volti dei suoi reietti, esempi archetipici degli effetti disastrosi della guerra. Ne emerge una dimensione dell’autore che si potrebbe dire, almeno apparentemente, neorealista, per come mette questo sciuscià al centro della sua storia ed esalta il contrasto tra un aspetto innocente e un comportamento da adulto. I suoi occhi raccontano un’umanità allo sbando, il suo sguardo non riflette tanto la perdita dell’innocenza, quanto piuttosto una crescente consapevolezza.
Spettri di carne e ossa

In quel fatiscente e mortifero ristorante/abitazione, che configura quasi un horror da camera, le ombre del titolo sono tanto le ferite lasciate quanto, soprattutto, le identità consumate di cui oggi non restano altro che scie sbiadite – si pensi alla storica ombra rimasta impressa sui gradini di una banca di Hiroshima a seguito dei bombardamenti. Ombre perché come tali non sono protagonisti della Storia, rimasti corrosi tra le macerie. Detriti prosciugati e privati di tutto – di un raziocinio bruciato tra e con gli edifici, della forza, del sorriso, dei propri corpi ora venduti. Resta il buio che, come sovente nel cinema del cineasta nipponico, è esternazione visuale e sensoriale della sofferenza. E se anche qui la narrazione si fa più nitida, alle volte sfiorando pericolosamente il didascalismo, Hokage è lo stesso mosso da quelle ossessioni dicotomiche, pulsanti e angoscianti che pochi come Tsukamoto sanno intercettare.
Un autore che, anche quando suggerisce di essere sul punto di impantanarsi, sa trovare ogni volta abbacinanti dettagli sincretici per far deflagrare la visione – la città incenerita in miniatura, il tunnel di soldati zombificati. Ancora una volta (specie in una sequenza che è difficile anche solo da pensare, quando il bambino interverrà eroicamente con una pistola) la carne si piega al metallo. Hokage, con tono sommesso e soffocato, pare allora l’ennesima sintesi del cinema di Tsukamoto: tutto torna, ma niente si spiega. E anche quando un controllo così saldo sulla costruzione formale talvolta allenta la presa sulla crudezza e il potenziale impatto percettivo (un passo indietro rispetto al riuscitissimo equilibrio tra lirismo rarefatto ed euforia cinetica di Killing, il migliore della trilogia), è troppo difficile resistere.
C’è ancora tempo e spazio per la speranza?

Se finanche la collocazione geografica e temporale della vicenda pare evidente, Tsukamoto guida in controsenso. Guarda alla vicende contemporanee, ai conflitti di tutti i giorni, astraendo la vicenda, che per l’autore giapponese potrebbe accadere ovunque e in qualunque momento, rendendola universale. Atto politico semplice, ma efficace. Nella baraonda di un tale stato d’agitazione – alla quale contribuisce un sonoro dirompente, ulteriore protagonista delle opere del cineasta nipponico – lo sguardo torna sempre su chi in quella babele sta muovendo i primi passi.
Ancora gli occhi dell’orfano, ancora una vita che può annientarsi ma che Tsukamoto sceglie di proiettare, certo con poca stabilità, verso il futuro. Un ultimo gesto di gratitudine e pietà, seppur non compreso, poi l’esistenza si perde tra la folla, la promessa perpetua di non cedere. In questo perpetuo anno zero non c’è salvezza: uno sparo può sancire l’inevitabile. I cicli sono destinati a ripetersi, le colpe dei padri a riaffiorare, il fuoco a riaccendersi e le ombre a moltiplicarsi. Forse Hokage è il meno riuscito della trilogia, ma rappresenta senza dubbio la sua coerente e logica conclusione naturale.
Conclusioni
Sembra uno Tsukamoto diverso, ma Hokage - Ombra di fuoco nasconde tutte le ossessioni del cineasta giapponese. Uno spaccato lacerante sugli orrori della guerra e sui fantasmi, le ombre, che essa genera. Perde qua e là parte della forza propulsiva rispetto alle precedenti parti del trittico (Fires on the Plain e Killing), ma alcune sequenze e intuizioni visive valgono da sole il prezzo del biglietto.
Pro
- La lucida riflessione sui traumi e le scorie del conflitto
- Sequenze uniche, che solo Tsukamoto può pensare
Contro
- L'eleganza formale e il controllo tecnico riducono, almeno in parte, la carica emotiva e la potenza delle immagini
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Voto ScreenWorld