“Era la tua storia fin dall’inizio, ma non lo sapevi“.
Basta una battuta a James Gunn per offrire una nuova prospettiva alla sua trilogia, l’unica veramente autoriale del Marvel Cinematic Universe. Sì, autoriale. Perché capace di mantenere la stessa persona alla scrittura e dietro la macchina da presa per tutti i tre episodi, con tutta la sua poetica e il suo modo di narrare una storia. Una storia che, come scritto nella nostra recensione, abbiamo amato, ma che ha dato voce anche a opinioni differenti, come solo i grandi film sanno fare.
Non abbiamo timore di dirlo: Guardiani della Galassia Vol. 3 è un grande film e lo è proprio per quella visione personale che il regista ha dimostrato di avere.
A James Gunn bastano, quindi, poche parole per sottolineare come il personaggio di Rocket Raccoon sia stato il vero protagonista della storia dei Guardiani. Quello capace di donare una sana dose di anarchia e imprevedibilità nei primi capitoli e quello che, con la sua assenza, ha cambiato il tono di questo terzo film. Proprio come un regista che decide il proprio lascito, consegnando un capitolo finale diverso dai precedenti, dove il divertimento ma soprattutto un grande cuore fanno da padroni.
“Il viaggio di Rocket è il mio“: così James Gunn ha lasciato scritto sul proprio profilo Instagram il giorno dell’uscita del film, gettando la maschera (come quella che sembra indossare il procione intorno agli occhi) e dando una chiave di lettura inedita al film.
Abominio di pezzi assemblati
Diversi cuccioli di procione si spaventano e si allontanano. La gabbia in cui sono rinchiusi si è aperta e una mano di origine divina protende verso di loro. Un piccolo procione rimane immobile, lasciando che le dita si chiudano sopra di lui. La macchina da presa si avvicina ai suoi occhi, riempie lo schermo del suo pelo che a poco a poco diventa più brizzolato. Con una semplice dissolvenza iniziale, James Gunn scopre subito le carte in tavola. Questo Volume 3 sarà incentrato su Rocket, una cavia da laboratorio che, una volta apertosi al mondo, ha dovuto nascondersi dietro al cinismo e a un umorismo cupo per non poter affrontare il proprio dolore e sopravvivere. Seguendo il flusso dei flashback sparsi lungo la durata del film, scopriremo che Rocket non è cattivo come vuole essere rappresentato, anzi ha solamente cicatrici troppo profonde da poter essere risanate con facilità. Sensi di colpa, perdita di amici, problemi di fiducia e un’identità sfuggente. L’Alto Evoluzionario, colui che l’ha creato intelligente, superando ogni più rosea aspettativa, non ha dubbi: Rocket è un abominio di pezzi assemblati, ma è anche, a suo modo, un genio. Uno scarto ricco di qualità. Una definizione che si presta particolarmente non solo al cinema da cui proviene James Gunn e che in casa Marvel è riuscito a contenere all’interno delle direttive dello studios (anche se in questo terzo capitolo la sensazione è quella di una mano più libera del previsto), ma anche alla poetica del regista.
Perché quando definiamo James Gunn come autore non ci riferiamo allo stile di regia o a quello che a prima vista può sembrare come un semplice gusto per il pop sporcato di un’attitudine punk. Basterebbe vedere come esiste un fil rouge che lega tutti i lungometraggi del regista e, soprattutto, le ultime sue opere a tema supereroi. Sia in Guardiani della Galassia che in The Suicide Squad, compresa la serie Peacemaker, lo sguardo di Gunn è rivolto ai disadattati che sono tali in quanto individui spezzati che non trovano un riconoscimento nel mondo in cui vivono. Che nascondono attraverso la follia e le personalità borderline il loro enorme disagio di vita. Sono tutti outsiders alla ricerca di un senso di appartenenza, lasciati fuori dalla serie A per il loro carattere particolare. Abomini nella misura in cui sono imperfetti. Dove la gabbia di laboratorio assomiglia a quella che definiscono una gabbia di matti (e stando alla definizione della Treccani: “gruppo di persone, o famiglia, la cui vita si svolge in modo disordinato e litigioso“.
Rocket è James Gunn: il tipo strano che non dovrebbe far parte di un gruppo (ricordate le reazioni quando nel 2012 venne annunciato che sarebbe stato lui, un figlio della Troma, a occuparsi del film?), con una comicità capace di metterlo nei guai (qui, invece, non serve ricordare la storia dei vecchi tweet rispolverati che l’hanno temporaneamente allontanato dalla Disney e dalla Marvel, per approdare in casa Warner/DC), a suo modo geniale (come un altro grande regista, James Cameron, anche Gunn che ha iniziato dal basso riesce con l’inventiva e la creatività a sapere esattamente cosa narrare e che tipo di narrazioni piacciono agli spettatori). Guardiani della Galassia Vol. 3 sembra essere proprio la sua storia: una carriera salvata dagli amici e colleghi, una seconda possibilità, una separazione amichevole per intraprendere nuovi viaggi. Così come Rocket sarà il capitano dei nuovi Guardiani della Galassia, così Gunn gestirà il nuovo corso supereroistico di casa DC.
Questo dialogo metacinematografico non è il motivo per cui il film è degno di nota – ci mancherebbe -, ma sottolinea analogie tra il trascorso personale dell’autore e la storia raccontata.
Verso il cielo con gli amici meravigliosi
In ogni film di Gunn c’è sempre un momento in cui i personaggi sullo schermo si rendono conto di essere ben distanti dalla normalità. Lo dimostrano dicendolo ad alta voce, rendendo partecipi sé stessi e gli altri che non stanno agendo in maniera canonica. È questo il motivo per cui Guardiani della Galassia Vol. 3 è ancora più speciale. In questa presa di coscienza, Gunn trasporta lo spettatore con sé all’interno del suo mondo. Un mondo fatto di pianeti organici, pulsanti gommosi, Controterre con ibridi umani-animali, riuscendo nell’incredibile impresa di dar vita a una galassia viva e vera. Il viaggio che James Gunn ha in serbo per noi è pieno di meraviglie e sorprese. Ma soprattutto pieno di divertimento. Lo stesso con cui è cresciuto, quello del Vendicatore Tossico o di Tromeo and Juliet. Lo stesso di Slither e Super e che ritroviamo anche in The Suicide Squad. Scurrile, viscerale, fuori dai canoni: c’è un piacevole gusto nell’alzare il dito medio nel cinema di Gunn.
Come diceva un personaggio saggio in una recente serie tv, “da soli è un viaggio e basta, le avventure vanno condivise”. C’è un cuore pulsante dietro quel dito medio, un cuore che risulta persino straniante rispetto all’aspetto esteriore, fatto di vera condivisione. Il grande miracolo di Guardiani della Galassia Vol. 3 è quello di riscattare il freak (inteso non solo come personaggio, ma come modo di essere). Quasi come a dire che no, non è Rocket, non è Drax e non è la singola Mantis, ma siamo tutti noi, a nostro modo, anormali. In questo essere strani, però, si nascondono lo stesso sangue, gli stessi principi, le stesse emozioni. Si tratta di un discorso veramente rischioso da affrontare, che potrebbe essere smielato e inzuccherato sino all’eccesso nelle mani sbagliati, ma che Gunn padroneggia come un maestro. Proprio perché sa cosa significa. Come Rocket, così il regista e sceneggiatore ha costruito un razzo con cui viaggiare insieme e, alla fine, poco importa la mancanza di equilibrio.
In una storia fatta di pancia e di cuore, il cervello si mette in secondo piano. Guardiani della Galassia Vol. 3 è un freak come i suoi protagonisti, un’avventura sbilanciata che funziona proprio perché imperfetta ed è proprio per questo che tocca corde profonde nel pubblico. Perché, almeno una volta, ci siamo sentiti spezzati e composti da pezzi ricuciti addosso, ci siamo stancati di quella gabbia che corrisponde al nome di routine quotidiana e ci siamo legati ad amici che poi abbiamo perduto. Stare accanto a Rocket significa sentirci come un altro personaggio del gruppo di eroi.
Se noi siamo Groot, balliamo e urliamo
Perché se James Gunn è Rocket, noi non possiamo altro che essere il suo compagno di viaggio prediletto, quel personaggio morto, rinato e ricresciuto nel corso di una trilogia, che con sole tre parole ha dimostrato cosa vuol dire essere una famiglia. Uno dei momenti più memorabili di questa fantastica trilogia pop è alla fine del primo film, quando Groot abbraccia intorno a sé, proteggendo, tutti i componenti dei Guardiani, di fatto sacrificandosi per salvar loro la vita. “Noi siamo Groot” diceva proprio a Rocket, rispondendo al perché avesse scelto di morire per loro. Rivedere il primo Guardiani della Galassia ora che abbiamo avuto il quadro completo di tutta la trilogia mette sotto i riflettori la coppia composta da Rocket e Groot, presentati come un’unità dialogante e unita.
Nel primo film Groot è maturo: è lo spettatore che non sa cosa aspettarsi da questo viaggio e lo affronta con serietà, corrisponde al lato emotivo del film (la scena citata poco sopra è uno dei momenti più memorabili del Marvel Cinematic Universe). Il suo destino, però, è quello di morire per poi rinascere. Qui James Gunn ci invita a cedere le nostre inibizioni, consapevole del successo della storia che sta raccontando. Noi ci siamo fidati e l’abbiamo seguito.
Nel Volume 2 al suo posto troviamo Baby Groot, il nostro lato più divertente e divertito, ingenuo e meravigliato. La forma migliore per approcciarsi a un sequel (che ha comunque sorpreso risultando inaspettato) di cui sapevamo già i toni.
Dopo la parentesi dei crossover con gli Avengers, in quest’ultimo film Groot è, invece, lasciato un po’ da parte, presente nel momento del bisogno, ma ben lontano dalla spensieratezza che aveva dimostrato nei precedenti capitoli (anche rispetto al primo film, dove aveva qualche lato imprevedibile, come quando agisce di sua volontà poco prima della fuga dalla prigione). È un personaggio granitico, una certezza che veglia su Rocket mentre è in coma sulla nave. Il ritratto perfetto dello spettatore che viene invitato a ridere di meno, a osservare e a prendersi cura di quella strana “famiglia” in cui si è ritrovato a far parte.
Perché, alla fine, a questi improbabili eroi noi vogliamo bene, forse più di qualsiasi altro supereroe Marvel (forse fatta eccezione per Peter Parker che con i Guardiani condivide molte delle loro difficoltà). C’è una battuta, che un esperimento dell’Alto Evoluzionario pronuncia con una schiettezza abbagliante: “È bello avere degli amici”. Una frase semplicissima e all’apparenza banale, ma che nasconde, nella sua infantilità, la capacità di empatia e comprensione. Come quella che finalmente abbiamo noi spettatori alla fine del viaggio, quando le tre parole di Groot riusciamo a capirle nella nostra lingua. Se prima ci specchiavamo in Groot, ora lo siamo diventati davvero.
Non rimane altro che smettere di scappare dal sentirsi esclusi, strani e solitari, mettere da parte il dolore ormai guarito e ballare (incredibile come alla fine persino Drax ceda alla tentazione della danza, un altro piccolo colpo da maestro di Gunn che vale più di mille epiche dipartite). Che il periodo stagnante, in cui si era passivi alla vita (e la presenza costante della musica per evitare il silenzio dei propri pensieri è indicativo), è terminato (Dog Days Are Over, no?) e ora non rimane altro che urlare di gioia, con tutto il fiato possibile.
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