Nei giorni scorsi, un prospetto non troppo rincuorante circolava con frequenza nei circoli ‘cinefili’ sui social media: la lista dei maggiori incassi di quest’anno negli Stati Uniti accanto a quella di mezzo secolo fa.
Il massimo campione d’incassi del 1972 era Il Padrino, vincitore dell’Oscar come miglior film, ma nella Top 10 annuale figuravano altri titoli pluripremiati (L’avventura del Poseidon, Cabaret) o pluricandidati (Un tranquillo weekend di paura, La signora del blues) agli Academy Award, nonché opere quali Ma papà ti manda sola? e Corvo Rosso non avrai il mio scalpo!, consacrate come autentici classici nei generi della commedia e del western.
Nella Top 10 annuale del 2022, per quanto ancora parziale, figurano quasi esclusivamente blockbuster legati agli universi Marvel e DC e/o sequel, incluso il primatista assoluto, Top Gun – Maverick. Unica eccezione, al decimo posto: Elvis, il biopic musicale dedicato da Baz Luhrmann al Re del rock’n’roll.
Da un lato, è una vecchia consuetudine esprimere rimpianto per i proverbiali good old days o la nostalgia per un’epoca idealizzata benché (o poiché) mai vissuta in maniera diretta; dall’altro, è innegabile che l’appeal dei cosiddetti “film da Oscar” sia andato scemando nei cinquant’anni intercorsi da quando Cabaret e Il Padrino dominavano il box-office. Non è un fenomeno che appartiene solo al 2022, né tantomeno può essere attribuito in toto agli effetti della pandemia, eppure i numeri parlano chiaro: molte opere apprezzate dalla critica, realizzate da grandi nomi del cinema e sponsorizzate in vista della stagione dei premi riescono a intercettare un pubblico drammaticamente ristretto. E se è pur vero che con buona probabilità ai prossimi Oscar ritroveremo pure un evento di massa quale Top Gun – Maverick (qui la nostra panoramica dei contendenti come miglior film), è innegabile che il ritorno di Tom Cruise nel sequel del suo cult degli anni Ottanta non costituisca certo un canonico titolo da awards season. Insomma, la domanda appare quanto mai lecita: è finita l’era dei film da Oscar?
Lo strano caso di The Fabelmans
Partiamo dalla cruda freddezza dei numeri. Nell’ultimo weekend di novembre, quello successivo al giorno del Ringraziamento (e da sempre uno dei più redditizi per i cinema statunitensi), The Fabelmans di Steven Spielberg, vincitore del Festival di Toronto e attuale favorito dell’imminente awards season (qui la nostra recensione), ha raccolto poco più di due milioni di dollari in 638 sale, arrivando a un incasso complessivo di neppure tre milioni e mezzo: non un disastro, ma comunque numeri deludenti se si considerano l’entusiasmo della critica per il film, l’universalità della storia narrata e il peso di un nome quale Steven Spielberg (senza iperboli, il più popolare regista dell’ultimo mezzo secolo). Non che l’autore di E.T. l’extra-terrestre e Lo squalo sia immune alle dure leggi del box-office: un anno fa la sua rivisitazione di West Side Story, a dispetto degli elogi, delle nomination e dei premi, ha dovuto accontentarsi di trentotto milioni in Nord America, a fronte di un budget a nove cifre.
La dura legge del box-office
Ma in attesa di un possibile effetto-Oscar in grado di far lievitare gli incassi di The Fabelmans, altri titoli con ambizioni da premio stanno registrando guadagni alquanto modesti. Anche io (in originale She Said), rievocazione del caso Weinstein con Zoe Kazan e Carey Mulligan, distribuito da Universal in oltre duemila sale, in due settimane ha incassato quattro milioni e mezzo di dollari: tanto basta per aver ricevuto il temibile bollino di ‘flop’ da parte della stampa di settore, l’equivalente hollywoodiano di una lettera scarlatta. Incassi contenuti, per quanto non disprezzabili, quelli riportati nel frattempo da alcuni fra i contendenti annunciati della corsa all’Oscar: otto milioni e mezzo per Till, dramma sui diritti civili che ha avuto a disposizione un massimo di 2136 sale negli Stati Uniti; quasi otto milioni per Gli spiriti dell’isola di Martin McDonagh, distribuito da Searchlight Pictures in 960 sale negli USA (con l’aggiunta di una decina di milioni incassati all’estero); cinque milioni per Tár di Todd Field, interpretato da Cate Blanchett, e quattro milioni per la Palma d’Oro Triangle of Sadness di Ruben Östlund.
Oscar e incassi: qualcosa è cambiato?
Intendiamoci: con l’eccezione di Anche io, che almeno sulla carta presentava un potenziale commerciale assai maggiore, in alcun caso si può parlare davvero di ‘fiasco’; senza contare che, da qui ai prossimi mesi, film come Gli spiriti dell’isola e Tár dovrebbero riguadagnarsi un discreto spazio nell’attenzione mediatica. Eppure, rispetto agli scorsi anni senz’altro qualcosa è cambiato. Nel 2017 il precedente lavoro di McDonagh, Tre manifesti a Ebbing, Missouri, era arrivato a ben centosessanta milioni in tutto il mondo, e The Post di Spielberg addirittura a centottanta. Un anno più tardi, il controverso vincitore dell’Oscar Green Book toccava quota trecentoventi milioni e BlacKkKlansman di Spike Lee oltrepassava i novanta, mentre la nuova versione di A Star Is Born, forte della caratura divistica di Bradley Cooper e Lady Gaga, sfiorava i quattrocentocinquanta milioni. Memorie di un passato ancestrale? Non proprio. Perché, allora, titoli come The Fabelmans stanno ottenendo una frazione di tali cifre?
Il cinema nell’era post-Covid
La ragione principale, e pare superfluo ribadirlo, va individuata nella profonda cesura segnata dal Covid: per i tragici effetti della pandemia, innanzitutto, ma anche per il modo in cui il rischio del contagio, le quarantene e i lockdown hanno mutato almeno in parte le nostre abitudini. Inclusa, per molte persone, la frequenza con cui si entra in una sala cinematografica: una frequenza che oggi, sebbene i rischi del Covid si siano enormemente ridimensionati in virtù dei vaccini, resta di gran lunga inferiore rispetto ai livelli pre-Covid. Che si tratti di prudenza o di pigrizia, non tutti gli spettatori adulti hanno ripreso ad andare al cinema con ritmi analoghi a quelli mantenuti fino al 2019, e il problema non riguarda soltanto i film da Oscar: basti pensare al debutto disastroso dell’action-movie Devotion o al clamoroso tonfo di Amsterdam, nonostante un cast di star quali Christian Bale e Margot Robbie.
Sala vs streaming: una lotta impari?
L’altra, annosa questione, già al centro di polemiche perfino nell’ambito del Festival di Cannes, è relativa alla concorrenza sempre più agguerrita da parte delle piattaforme di streaming: una modalità di fruizione di film e serie TV che si era cementata nella routine degli spettatori per poi rafforzarsi ulteriormente nei periodi di lockdown. Il dibattito sulla dicotomia fra streaming e sala tiene banco ormai da un decennio: la comodità della visione casalinga sta realmente sradicando il valore del cinema come rituale immersivo e collettivo?
A questo interrogativo si aggiunge poi un fattore ulteriore: molti titoli di prestigio vengono prodotti e/o distribuiti direttamente dai colossi dello streaming, rendendo pertanto quasi impossibile vederli in sala. È il caso, per limitarci soltanto alle opere più recenti e blasonate, di Roma di Alfonso Cuarón, The Irishman di Martin Scorsese, Storia di un matrimonio di Noah Baumbach, Mank di David Fincher, Il processo ai Chicago 7 di Aaron Sorkin e Il potere del cane di Jane Campion (tutti targati Netflix), fino a I segni del cuore di Sian Heder, prima pellicola di un servizio di streaming (Apple TV+) ad aver conquistato l’Oscar come miglior film.
I bagliori di speranza
La situazione è dunque disperata? Non necessariamente: nell’ultimo anno, in più di qualche caso abbiamo avuto la prova che, nelle giuste circostanze, si può riportare il pubblico in sala, pure al di là delle legioni di affezionati di Marvel e dintorni o del campo delle saghe e dei film d’animazione. Esempi significativi ce li hanno forniti i quattrocento milioni di dollari per Dune di Denis Villeneuve, a dispetto della sua disponibilità in contemporanea su HBO Max e di un approccio piuttosto sofisticato alla fantascienza; il ‘caso’ di Everything Everywhere All at Once, che grazie a un formidabile passaparola ha sancito il primato di incassi per il distributore A24 in Nord America (settanta milioni); e, al di fuori della fantascienza e dell’horror (da citare in tal senso quantomeno Nope di Jordan Peele), i numeri di tutto rispetto in patria per The Woman King con Viola Davis, Don’t Worry Darling di Olivia Wilde, pur con l’ostacolo delle recensioni negative, e la black comedy The Menu.
Il cinema è vivo (e lotta insieme a noi)
Certo, non sempre bastano il passaparola o i pareri positivi per catalizzare l’interesse verso film che non possono contare sulla garanzia di fedeltà riservata alle saghe; e gli esiti commerciali di uno specifico prodotto sono legati a una pluralità di variabili (dalla data d’uscita alle scelte di marketing, dalla strategia di distribuzione agli ‘umori’ del momento) talmente complesse da non poter essere incasellate entro formule matematiche. Fatto sta che, nel difficile scenario post-Covid, la “buona salute” di un certo tipo di cinema richiede più che mai la collaborazione di tutti gli appassionati.
In primo luogo acquistando il biglietto per la sala, ma poi anche parlando dei film: quelli che amiamo, ma in generale di qualunque opera che ci induca a riflettere e a discutere… provando, magari, ad ampliare la discussione alla platea più vasta possibile. Con l’auspicio che il cinema torni sul serio ad essere una grande esperienza collettiva in grado di incidere sul nostro immaginario, ma prima ancora una piacevolissima abitudine che non si dovrebbe mai dare per scontata.
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