Arrivato nei cinema il 14 febbraio, Finalmente l’alba, il nuovo film di Saverio Costanzo omaggia e decostruisce un certo momento del cinema italiano raccontando una storia che parla tanto di innocenza perduta, quanto di nostalgia. L’occasione giusta per guardarci indietro e riflettere su cosa abbia significato, tra sregolatezza e ricerca di fortuna, la Hollywood sul Tevere e quanto sia ancora forte la sua eredità nel nostro immaginario cinematografico.
Roma, 1953
In una giornata di primavera romana la giovane Mimosa si trasforma da futura moglie, ad aspirante attrice, a donna. Una giornata in bilico tra sogno e realtà in cui la ragazza tocca con mano quel rincorrersi di luci e ombre che è proprio del cinema ma anche della vita stessa. Un gioco di equilibri che è l’anima stessa di Finalmente l’alba, film che ci restituisce le sensazioni di un’epoca attraverso riferimenti realistici ma allo stesso tempo fittizi.
Gli anni Cinquanta sono infatti un decennio in cui gli studios americani, spinti dai costi inferiori e dalla possibilità di sfruttare spazi esterni ancora incontaminati, spostavano le produzioni dei kolossal a Cinecittà ridando slancio agli studi romani e, di conseguenza, aprendo tante possibilità di lavoro – saltuario o meno – per tutti gli abitanti del vicino Quadraro. Falegnami, artigiani, sarti, maestranze di ogni genere oltre che centinaia e centinaia di figuranti che, spinti dal desiderio di far fortuna o di avere il pranzo assicurato (il famoso cestino con le lasagne), si mettevano in fila per provare a far fortuna nella fabbrica dei sogni che sembrava essersi spostata proprio sulle sponde del Tevere. Insomma Cinecittà, e tutto quello che le ruota attorno, diventa un modo come un altro per fare fortuna: più o meno onestamente.
Il doppio volto della dolce vita
Perciò tra i figuranti vestiti da centurioni che, secondo la leggenda dimenticavano di togliersi l’orologio e le catenine d’oro, e pubblicitari intuitivi, che iniziano a puntare sui gossip ad hoc per promuovere i film e lanciare i divi nostrani, nasce anche una vita da jet set ambigua e indolente. La stessa che Fellini ritrasse praticamente in diretta ne La dolce vita e che in Finalmente l’alba vediamo immortalata con uno spirito altrettanto trasognato ma con un disincanto tipico dei giorni nostri.
Il cinema che si guarda nel buio della sala o che si sogna sfogliando Epoca, magari immaginando storie d’amore impossibili con i divi del grande schermo, sono infatti sogni imperfetti ma comunque patinati rispetto a una realtà polverosa di un’Italia ancora innocente e che ricominciava a respirare dopo la fine della guerra. Un’innocenza che, metaforicamente, venne meno il 9 aprile 1953 quando sulla spiaggia di Torvaianica venne ritrovato il corpo senza vita di Wilma Montesi; il caso, tutt’ora irrisolto, diventò il primo episodio di cronaca nera ad avere un impatto mediatico senza precedenti: sia per le circostanze misteriose della scomparsa della ragazza, sia per il coinvolgimento, vero o presunto, di alcune personalità mondane – in particolare Ugo Montagna e Piero Piccioni. Uno scandalo di proporzioni mai viste che all’epoca balzò in cima alle cronache con tanto di speculazioni su festini in una tenuta a Capocotta dove, pare, partecipassero anche alcune aspiranti attrici che facevano le comparse a Cinecittà.
Sogni, incubi e cinema
Ma in racconti del genere la realtà fa presto a sbiadire lasciando spazio a sogni di celluloide o incubi inaspettati. Non è infatti un caso che Finalmente l’alba – arrivato nelle sale in una versione leggermente diversa rispetto a quella presentata allo scorso Festival di Venezia, scelga di riflettere sulla cronaca sovrapponendovi la propria finzione filmica ma anche tutto un bagaglio culturale precedente. In particolare quella ragazza che, sul finale de La dolce vita, parla a Marcello senza che lui riesca a sentirla; pare che Fellini per questo si fosse ispirato proprio a Wilma Montesi e, guarda caso, quella sequenza è girata proprio su una spiaggia.
In Finalmente l’alba la stessa Mimosa si reca sulla spiaggia in un momento in cui sembrano voler cadere tutti i confini tra realtà e finzione filmica. La protagonista assume così i contorni di una Wilma Montesi che assiste alla propria morte; laddove morte non è intesa come fine della vita in termini assoluti ma come passaggio a un’altra età della vita stessa. Infatti la ragazza che vediamo alla fine del film potrebbe non essere lei, ma addirittura un’altra proveniente dalla nostra epoca.
Lontano dall’essere un film organico, Finalmente l’alba cerca di far convergere sensazioni e umori di un momento, neanche troppo lontano nel tempo, in cui non eravamo né migliori né peggiori rispetto a oggi ma in cui il fascino del cinema era travolgente; dal canto nostro non riusciremo mai a comprendere e, soprattutto, a toccare con mano quel periodo inquietante e straordinario in cui il cinema americano si faceva a casa nostra. Anni in cui la gente si chiudeva in un cinema piccoli con scomode sedute in legno pur di evadere dalla realtà, in cui quartieri interi si mettevano in fila a Cinecittà per cercare un’occasione e in cui i divi bazzicavano davvero Via Veneto prima che Vacanze romane diventasse un cliché da calendario da rivendere ai turisti.
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