“Il Multiverso è un concetto di cui conosciamo spaventosamente poco.” Così diceva Stephen Strange nel Multiverso della follia di Sam Raimi ma, paradossalmente, dopo gli ultimi film e serie Marvel e, soprattutto, dopo il nuovo, folle, destabilizzante film dei The Daniels, ovvero Everything Everywhere All At Once, qualcosa in più abbiamo imparato riguardo questo affascinante concetto o, se vogliamo, ipotesi scientifica ancora non dimostrata.
Per prima cosa sappiamo che, se esistono infiniti universi alternativi, ci sono anche infinite versioni di noi stessi, che magari vivono esistenze completamente diverse, oppure leggermente differenti, magari solo per qualche piccolo dettaglio. Ognuna di queste strade rappresenta una possibilità esistenziale o, in altri termini, una linea narrativa percorribile dagli sceneggiatori in questione. Inoltre, un po’ come i raggi protonici dei Ghostbusters che non devono assolutamente incrociarsi tra loro, pena il deflagrare dell’intera esistenza, abbiamo appreso che se le diverse dimensioni alternative vengono incrociate, o comunque fatte coesistere in qualche maniera, questo è male e, come per il cult di Ivan Reitman, produrrà effetti a catena devastanti per il Multiverso tutto.
Come vedremo, il modo di intendere, sviluppare e usare il concetto di Multiverso è molto diverso tra il Marvel Cinematic Universe e il dirompente film dei The Daniels, interpretato da una magnifica Michelle Yeoh, accompagnata da icone anni ’80 del calibro di Jamie Lee Curtis (che in alcune scene sussume le caratteristiche della sua nemesi di sempre, Michael Myers), Jonathan Ke Quan (l’indimenticabile Shorty Round del secondo Indiana Jones nonché Data dei Goonies) e James Hong (il grinzoso e concupiscente Lo Pan di Grosso guaio a Chinatown). Avvertiamo che da qui in poi saranno presenti spoiler, per cui si consiglia la lettura soltanto a chi ha già visto il film.
Il multiverso secondo la scienza, la filosofia e la letteratura
Senza alcuna pretesa di esaustività, prima di inoltrarci nel Multiverso come espediente narrativo cinematografico, vale la pena spendere due parole sul Multiverso come ipotesi scientifica, ancora non provata, come filosofia e come base di tanta bellissima letteratura fantascientifica.
Il concetto di Multiverso fu postulato per la prima volta, come ipotesi scientifica, dal fisico Hugh Everett III, nel 1957. In seguito scienziati come il famoso Stephen Hawking, Steven Weinberg, Brian Greene, Michio Kaku, Neil Turok, per dirne solo alcuni, sostennero l’esistenza del Multiverso, basata su diversi modelli teorici come la teoria delle bolle, detta anche universo a inflazione caotica, la teoria delle stringhe o delle superstringhe, il Multiverso Patchwork e altri ancora. Per approfondire consigliamo la lettura del bellissimo saggio divulgativo “La realtà nascosta” di Brian Greene, edito nel 2011 da Einaudi.
In realtà la filosofia greca prima, e rinascimentale dopo, avevano anticipato il Multiverso. Anassimandro, vissuto tra il 610 a.C. e il 546 a.C., speculando sul concetto di àpeiron in quanto sostanza infinita fatta di energia pura che conteneva in potenza tutti gli elementi (opposti tra loro) di cui è costituito l’universo, aveva ipotizzato che tale sostanza infinita, scindendosi, potesse generare un numero infinito di mondi, anche se non chiarì se tali mondi esistevano in sequenza, ovvero se si alternassero ciclicamente nel tempo secondo precise scansioni temporali, oppure se esistessero contemporaneamente.
L’atomista Democrito e il suo discepolo Anassarco, coevi di Anassimandro, teorizzarono anch’essi l’esistenza di una pluralità di mondi che si avvicendano in un continuo processo di aggregazione e disgregazione di atomi nel vuoto. Aristotele però, con la sua logica ferrea che impediva l’esistenza di più mondi, pose una sorta di veto all’ipotesi del Multiverso, che si protrasse fino al Rinascimento, ovvero fino a quando Copernico non dimostrò la complessa grandezza dell’universo, composto da miliardi di galassie. Fu Giordano Bruno, nel XVI secolo, a parlare apertamente dell’esistenza di infiniti mondi, tutti creati in egual modo da Dio. Infine nel XX secolo la letteratura fantascientifica ha ampiamente esplorato il concetto di Multiverso, tramite autori del calibro di Philip K. Dick, Poul William Anderson, Robert Sheckley, Philip José Farmer, solo per dirne alcuni.
Il Multiverso autoreferenziale di Kevin Feige
Nel Marvel Cinematic Universe, voluto e sviluppato dal demiurgo/produttore Kevin Feige, gli universi paralleli rappresentano, in un certo senso, possibilità alternative alla linea narrativa principale stabilita dai film nelle prime tre fasi del MCU. Questo risulta evidente soprattutto in Loki, serie in cui la TVA (Time Variance Authority) vigila sulla tenuta delle linee temporali, affinché non deraglino dal percorso prestabilito dal destino, fato, o forse da un’entità capricciosa come Kang, detto anche Colui che Rimane.
È come se nella Casa delle Idee, una volta esaurite le idee, il Multiverso consenta di esplorare ulteriori possibilità, sia nello spazio che nel tempo, e si trasformi soprattutto in una sorta di panacea narrativa che permetta di sbizzarrirsi, dando spazio da un lato a una apparente e vertiginosa sensazione di grande libertà creativa, ma dall’altro a corsi e ricorsi narrativi per nulla originali, ripescaggi di personaggi ad uso e consumo dei fan, giustificazioni di ricalibrazioni di trama in corso d’opera, retcon improbabili.
In altre parole il Multiverso del MCU è assolutamente autoreferenziale, perché allude alla stessa frammentazione narrativa di cui esso si compone, in cui gli universi paralleli sono asserviti ad una logica che rimanda a pezzi di MCU che conosciamo già, solo per ripercorrerne i fasti (pensiamo alle rivisitazioni presenti in Avengers Endgame), o per resuscitare e/o reintrodurre personaggi, per puro fan-service.
Su quest’ultimo punto basta pensare al dottor Xavier e al Reed Richards, goffamente reintrodotti nell’ultimo Doctor Strange, ma anche, soprattutto, ai tre differenti Spiderman di No Way Home, film che titilla furbamente il cuore nostalgico di differenti generazioni di pubblico, cresciute con i tre Spiderman incarnati rispettivamente da Tobey Maguire, Andrew Garfield e Tom Holland. Il film di Jon Watts recupera inoltre, al loro seguito, i villain, più o meno iconici, presenti nei film precedenti, a cominciare dal ghignante Goblin di Willem Dafoe e dall’Octopus di Alfred Molina, sicuri motivatori di applausi in sala al loro apparire su schermo.
Il Multiverso emotivo dei The Daniels
In Everything Everywhere All at Once le numerose ed esilaranti versioni di Evelyn che entrano nella storia, rappresentano le possibilità esistenziali del personaggio, dunque il rimpianto per tutto ciò che avrebbe potuto fare ed essere nella sua vita e non è stata. Il villain di turno non ha motivazioni egoistiche come Thanos o Wanda Maximoff, ma la Jobu Tupaki (o Joy, figlia di Evelyn) del film dei The Daniels deriva la sua furia distruttiva, decisamente iconoclasta, da un male esistenziale diffuso e condivisibile.
L’avere a disposizione, nello stesso momento (All At Once), infinite esistenze diverse da esplorare è come non averne nessuna. La consumazione di ognuna di esse è come un’abbuffata che porta a un hang-out esistenziale, un’insensibilità che tanto ricorda quella che viviamo anche noi tutti i giorni, bombardati da informazioni e da infiniti possibili percorsi di vita, lavorativi, relazionali, tutti apparentemente raggiungibili con semplici click, ma in realtà necessari di metabolizzazione e consapevolezza.
E proprio la consapevolezza sarà l’arma decisiva con cui Evelyn sconfiggerà il cattivo, che non è la figlia, bensì l’esistenza stessa, con le sue fisiologiche contraddizioni e frammentazioni. L’accettazione del carattere indomito e irriducibile di Joy, nonché della resiliente gentilezza del marito, oppure del dolore presente nell’animo di tutti gli individui (compresi quelli contro cui si scontra fisicamente), sarà la chiave per giungere a una risoluzione della crisi nel Multiverso, scatenatasi nel film dei The Daniels.
Dunque nessuno stratagemma narrativo basato su improbabili spiegazioni scientifiche, comprensibili solo a pochi e non sempre coerenti, nonché spesso risolte da scontri a base di mazzate. Queste ultime ci sono, e in abbondanza, nel film dei The Daniels, ma sono visivamente così piene di idee incandescenti e intuizioni folli da surclassare quelle adrenaliniche ma comunque mainstream, irreggimentate in certi canoni, dei film Marvel.
Evelyn deve fare inoltre ricorso a tutta la sua empatia per tramutare le aggressioni dei nemici in improvvise occasioni di riscatto psicologico per loro stessi; deve poi ricorrere a tutta la sua forza emotiva per affrontare e accettare la figlia problematica e il marito troppo accondiscendente, infine, per accettare sé stessa per ciò che è, con tutti i problemi della vita quotidiana (la lavanderia a gettoni e le tasse) e i rimpianti per ciò che non è stata. Il Multiverso declinato dai The Daniels nel loro sorprendente, originale ed emozionante film è dunque al servizio del percorso emotivo dei personaggi, serve a farli maturare e diventare consapevoli: in due parole è al servizio delle emozioni.
E voi cosa ne pensate? Siete d'accordo con le nostre riflessioni?
Se volete commentare a caldo questo articolo insieme alla redazione e agli altri lettori, unitevi al nostro nuovissimo gruppo Telegram ScreenWorld Assemble! dove troverete una community di persone con interessi proprio come i vostri e con cui scambiare riflessioni su tutti i contenuti originali di ScreenWorld ma anche sulle ultime novità riguardanti cinema, serie, libri, fumetti, giochi e molto altro!