Non è mai stato semplice posizionare e inquadrare il noir, sia esso considerato un genere, un linguaggio, uno stato d’animo o (prendendo in prestito le parole di Paul Schrader) un umore. Più difficile, poi, comprendere ciò che si svincola partendo da esso, cosa deriva ed è una conseguenza di quell’espressione filmica così amorfa. Quando tra la fine degli anni Ottanta e l’inizio dei Novanta il noir torna con prepotenza alla ribalta – i germi di questa nuova spinta partirono certo da prima, tra Chinatown, Taxi Driver o Il lungo addio – contamina generi diversi, si insinua nei pertugi della settima arte e riconoscerlo, soprattutto raccontarlo, diventa una sfida tanto ostica quanto stimolante.

Appena prima dell’alba del nuovo millennio, il noir sembra poter trovare spazio anche in una Cina – qui intesa come quella continentale, la Repubblica Popolare Cinese (da qui RPC) – intenta a provare a venire a capo, grazie a un nuovo e proteiforme corso del suo cinema, del caos della contemporaneità nazionale.

East to East è una rubrica di ScreenWorld nata per lanciare uno sguardo – nei limiti di una proposta editoriale che vuole configurarsi prima di tutto come divulgativa, mantenendo un equilibrio tra narrazione e sintesi – verso alcuni tra i generi, le personalità e le tendenze meno chiacchierate del cinema dell’estremo oriente di oggi – o, per meglio dire, degli ultimi trent’anni circa. Come da titolo, un viaggio che andrà da un est all’altro, tra nazioni, culture e società differenti che mettono in scena idee di cinema talvolta non familiari all’Occidente.

Dal rosso al nero

Il lago delle oche selvatiche
Il lago delle oche selvatiche – ©Movies Inspired

Se il noir prende nuovamente piede nell’ultimo decennio del secolo scorso è soprattutto per via di uno specifico spirito del tempo: si avvertiva lo sfaldamento dell’illusorio benessere professato negli anni precedenti e il futuro appariva incerto. Una fase di crisi che ovunque segna il ritorno del noir (per certi versi anche in Asia stessa: il Giappone scopre Kitano, dopo una fase meno florida, proprio per questo tipo di produzioni), mentre nel caso della Cina si può forse parlare di una nascita vera e propria.

Il crime faticava a ritagliarsi spazio per via di un controllo statale rigidissimo: a spuntarla erano quasi sempre grandi epiche in costume che ribadivano la centralità della tradizione e della cultura sinica, con ruolo propagandistico e didattico – opere che ragionavano meno su possibili sfumature, aspetti controversi e cupi della società. La Rivoluzione culturale e la stretta maoista, poi, misero alle corde un clima di suo asfittico, limitando drasticamente la produzione cinematografica. I primi cenni di cambiamento si avvertirono con il realismo socialista della Quinta generazione (Zhang Yimou, Chen Kaige), che riversava sui propri melò e blockbuster nazionalistici le cicatrici di quel periodo, aprendo a nuove e più complesse tematiche non sempre gradite agli organi di supervisione statale.

Il punto di rottura decisivo avvenne però nel 1989: la tragica repressione militare di Piazza Tienanmen segnò profondamente una collettività che iniziò a sentirsi sconfitta e diede inizio alla staffetta con una nuova (e indipendente) generazione di cineasti cinesi – la sesta, pronta a rompere con il passato artistico del paese e a demitizzarlo. Le vie della metropoli aprivano le porte alle macchine da presa e se è vero che il noir si nutre delle paure nelle sue fasi transitorie, da lì il passo per arrivarci non fu lungo.

Seste rappresentazioni

Fuochi d'artificio in pieno giorno - ©Movies Inspired
Zhang Zili (Liao Fan) e Wu Zhizhen (Kwai Lun-mei) in Fuochi d’artificio in pieno giorno – ©Movies Inspired

Dalla campagna alla città (alle città); dalla ricerca estetica alla documentazione oggettiva. Il passato tradizionale cede davanti alle nuove consapevolezze di una generazione che ha bisogno di indagare il presente, i suoi spazi e la sua gente, le contraddizioni di una Cina che stava mutando il proprio volto tradendo se stessa e i suoi figli. Contesto pressoché ideale, quindi, per il noir: epoca di flusso e irrequietezza, come gli Stati Uniti del dopoguerra, nella quale bene e male si confondono, il fascino diventa repulsione e il denaro strumento per manovrare. L’eroismo e la fedeltà del passato cinematografico sinico lascia il posto a una delinquenza e una criminalità prima utilizzate al solo scopo di esaltare il sistema e i suoi corpi, alla precarietà (se non addirittura all’estrema povertà), all’emarginazione, al divario tra classi ampiamente allargato per via di riforme economiche che hanno spaccato l’Asia orientale a metà.

In questo contesto di perdita della soggettività a favore di una rappresentazione più rabbiosa e legata al reale, meno romantica in nome di una presunta dimensione oggettiva, il neo-noir si piega alle logiche programmatiche della nuova generazione underground. Restando ancorati all’idea che il noir oggi è forse più difficile da decriptare rispetto al passato – ibridato com’è tra generi, linguaggi, stili eterogenei e teorizzazioni – esso andrà cercato non solo nel crime, nelle storie di gangster e nelle seduzioni delle femme fatale, ma anche e soprattutto nelle domande che i cineasti cinesi di pongono e nelle risposte che si danno. La storia del noir cinese, per certi versi, incrocia, fino a fondersi con essa, quella dell’intero cinema della Cina post-socialista.

Cambiamenti inafferrabili

I figli del fiume giallo
Guo Bin (Liao Fan) e Zhao Qiao (Zhao Tao) ne I figli del fiume giallo – ©01 Distribution

Se già ai suoi albori appariva sintomatico dei tempi e dei luoghi d’azione, figlio della Storia che incrociava le storie, finanche nella Cina contemporanea il noir si fa commento sociale e mezzo per esprimere malumore, malcontento, disagio, sovente verso le istituzioni. Nelle espressioni locali – al plurale, vista la vastità del territorio cinese e delle sue sfaccettature – del noir tornano elementi che si potranno definire transnazionali, transculturali, in un dialogo sempre attivo con il passato e l’Occidente. Al centro, e in misura più evidente rispetto al neo-noir coreano o nipponico, restano però le preoccupazioni di un paese in piena trasformazione e sovvertimento – transizione economica, culturale, sociale ancora oggi in atto, motivo per il quale il cinema cinese risulta di così ardua decodificazione e definizione stabile.

La nazione cambia e con essa le sue città, ma mutano soprattutto le aree rurali, travolte dal processo di gentrificazione verso le zone urbane. A regnare sono la disarmonia, le tensioni tra uomini e idee, luoghi e tempi, espropriazioni incomprese e consapevolezze sofferte. Un cinema che, radicalizzando gli stilemi canonici del noir, si fa anti-spettacolare e anticlimatico (in ciò prende le distanze dal noir di Hong Kong, da cui comunque raccoglie un certo fatalismo nichilista). Il cinese si chiude su se stesso quando sembra che stia per urlare, lavora d’accumulo ma dissemina per arrivare a snellirsi fino all’astrazione, ribalta il tavolo quando i pezzi del puzzle stanno per congiungersi.

Incoerente e disincantato come la Cina stessa agli occhi dei suoi autori, così terrena ma al contempo così sfuggente; come fuochi d’artificio che scoppiano in un cielo limpido di cui si distingue il suono ma a malapena ne si scorge la fantasia.

Documentare la finzione, fingere la realtà

Blind Shaft
Blind Shaft – ©Tag Spledour and Films, Li Yang Filmworkshop

Esplorare gli spazi del reale, scendere tra le strade e il fango, tra bicchieri mezzi pieni e sigarette sempre fumanti, porta inevitabilmente a lavorare con uno sguardo simil-documentaristico, meno patinato e più “sporco”, grezzo, orientato al realismo, o almeno a una ricerca filtrata di quest’ultimo – «la mia camera non mente» viene affermato in Suzhou River (苏州河, 2000) di Lou Ye. Jia Zhangke, forse il cineasta più rappresentativo del cinema sinico contemporaneo,  ha lavorato fin dall’esordio con Pickpocket (小武, 1997) alternando produzioni di fiction ad altre cronachistiche, sfumandone i confini quando la finzione si fa carico del racconto radicato nel reale. I principi del docu-noir, cupo e secco, trovano forma ideale nel lavoro di Li Yang, in particolare nella sua opera prima Blind Shaft (盲井, 2003).

Su “Blind Shaft”

“Se il socialismo, in quanto forma di moderno umanesimo, significa onorare i contributi e i diritti – e quindi la dignità di base – delle classi oppresse, Blind Shaft è anzitutto un crudo ritratto del fallimento del socialismo cinese a cavallo del ventunesimo secolo” – Rey Chow, Sentimental Fabulation. Contemporary Cinese Films

Il film di Li ragiona, portando la macchina da presa a sfiorare i volti dei protagonisti, su cause e conseguenze del tanto encomiato miracolo economico. Al centro della vicenda le miniere di carbone sorrette sul sangue dei lavoratori sfruttati e la brama di denaro e successo, di minatori e capi, sintomi di un capitalismo amorale sempre più imperante nella RPC – scenario non distante da quello descritto in Wrath of Silence (暴裂无声, 2017). Ciò che resta dell’utopia comunista e delle promesse delle riforme economiche di Xiaoping Deng è un disilluso pessimismo esistenzialista, nonché la violenza come unica arma per sopravvivere.

Giungle d’asfalto e di perdizione

Il tocco del peccato
Una scena de Il tocco del peccato – ©Officine UBU

È proprio un più centrato discorso sulla violenza, lo sfruttamento e la corruzione endemica nella Cina contemporanea – elementi prototipici delle torbide storie criminali, nucleo pulsante del noir – che caratterizza opere come il già citato Blind Shaft, Il tocco del peccato (天注定, 2013) di Jia Zhangke o People Mountain People Sea (人山人海, 2011) di Cai Shangjun: la crisi ideologica, la disgregazione dei codici etici e il vuoto spirituale portano ad abbandonare disperatamente l’umanità, rendono ambigui i valori e labile il confine tra benevolenza e crudeltà in individui già fragili e delusi.

I protagonisti del neo-noir cinese sono i fantasmi del cinema locale: figure marginali, prima escluse o passive, ora significanti. I prodotti di una specifica realtà sociale, come perdigiorno, senza tetto, delinquenti e gangster caduti in rovina, poliziotti immorali, giocatori d’azzardo (non si contano le partite a carte o mahjong, talvolta clandestine), lavoratori precari. Un paesaggio sociale fumoso e ostile, plagiato da un sistema ormai nella fase finale della transizione verso un individualismo lacerante, matrice di pessimismo, di fenomeni criminali e tradimenti che trasformano le prede in predatori, sondati con istanze neorealiste che piegano il noir al locale.

Figli di un Giano bifronte

Wrath of Silence
Wrath of Silence – ©Bingchi Pictures

Chi non si adatta e si omologa resta fuori, alienato, trasportato come detriti dai fiumi (onnipresenti nelle narrazioni siniche), disorientato ai margini della società globalizzata e cosmopolita che volta le spalle, agendo apparentemente senza concausalità. Spettatori della propria stessa esistenza condannati all’isolamento. Come il tassista protagonista di Old Stone (老石, 2016) di Johnny Ma, reo di aver mostrato un briciolo di umanità ed etica e, per tale motivo, inchiodato da una burocrazia controversa che quasi penalizza chi pensa al prossimo. Amara radiografia di un mondo indifferente e ingiusto che non può che plasmare caratteri inquieti, pronti a esplodere in furiosi impulsi dettati dal rancore.

Un’umanità sotterranea ed estranea alla conformità, come dimostra il borseggiatore protagonista dell’esordio di Jia – non è un caso che Pickpocket e altri titoli legati al sottobosco criminale escano attorno al 1997, anno fondamentale per la Cina tra instabilità sociale, politica ed economica a seguito dell’handover. Un personaggio lontano dai ritmi e dalle tendenze di una nuova Cina che pare non poterlo più accogliere, dove gli ex “colleghi”, oggi gli imprenditori corrotti e devoti al capitalismo, dominano la società – idee che torneranno nel corpus cinematografico dell’autore, come in Al di là delle montagne (山河故人, 2015), opera sì distante dal crime ma nella quale una donna (simbolicamente la Cina stessa) è contesa tra due uomini che rappresentano il nuovo e la tradizione, lo sguardo all’esterno e la persistenza delle origini.

Antropomorfizzazione del trauma, dell’incertezza e del tempo

Il mistero scorre sul fiume
Ma Zhe (Zhu Yilong) ne Il mistero scorre sul fiume – ©Wanted Cinema

Il crimine quale prodotto di un malessere generale, quasi di ascendenza melvilliana, una tensione disperata che porta al peccato. Lungi dall’urlare e dichiarare drammaticamente, il noir cinese contemporaneo (mutuando le ambiguità dell’epoca d’oro occidentale) preferisce mostrare velatamente e si fa implosivo, tristemente soffocato: si priva delle parole e fa affidamento quasi totalmente ai gesti, alle piccole azioni – anche se di eccezioni che confermano la regola non ne mancano, come il curioso e stranissimo pulp d’animazione di Liu Jian, Have a Nice Day (大世界, 2017). Così i drammi (nel caso del noir le indagini, le tentazioni, gli inganni) si fanno morbosamente privati anche quando partono dal pubblico – i turbamenti del detective che arriva a perdere la cognizione spazio-temporale ne Il mistero scorre sul fiume (河边的错误, 2023) di Wei Shujun -, vengono introiettati e deflagrano nelle menti apparentemente più forti ma invero fragili, instabili.

La RPC si riflette nei loro occhi spaesati, in bilico tra ieri e domani in un tempo inafferrabile che inesorabilmente trasforma senza chiedere e avvisare, come in due degli esempi più vividi di rielaborazione territoriale del noir, nei quali la narrazione si frammenta come le identità dei suoi personaggi – Fuochi d’artificio in pieno giorno (白日焰火, 2014) e I figli del fiume di giallo (江湖儿女, 2018), quest’ultimo ambientato in tre momenti diversi della storia recente del paese (snodato in diciassette anni, tra 2001, 2006 e 2018), con il tempo a sottrarre memorie, tradizioni e sentimenti. Così come per il noir classico o il polar, anche in Cina questo cinema è mezzo per restituire l’irresolutezza umana, l’ineluttabilità beffarda e la paranoia di un territorio infetto che cambia, si muove ma sembra andare indietro pur promettendo avanzamento.

Incontrarsi tra le macerie

Have a Nice Day
Una delle scene iniziali di Have a Nice Day – ©Le-Joy Animation Studio

Tragica disumanizzazione che influisce sugli ambienti del noir cinese, legati a doppio filo all’interiorità dei singoli, identificando le circostanze sociali con quelle geografiche – frequentemente interni al titolo stesso, si veda Il lago delle oche selvatiche (南方车站的聚会, 2019) di Diao Yinan che, in originale, suona come “Appuntamento alla stazione sud”. Un inferno in terra nel quale le zone rurali sono divenute paludi affinché potessero crescere in altezza i centri urbani – crescita che pare non fermarsi, testimoniata dall’incombere di gru, cantieri, scheletri di nuovi giganti iconoclasti – nei quali coesistono moderno e detriti. Come quadri di Hopper imputriditi, teatri del crimine e delle lotte ideologiche sono spazi collettivi abbandonati: bar, luna park, sale da ballo o luoghi operai nei quali la miseria e le bassezze della società vengono fuori.

Sullo sviluppo urbano contemporaneo

“[…] un processo che sta rapidamente cancellando la memoria urbana e producendo un’amnesia collettiva” -Zhang Zhen, Bearing Witness. Cinese Urban Cinema in the Era of “Trasformation” (Zhuangxing)

Una desolazione spaziale, iperrealistica ma al contempo ai limiti del post-apocalittico, che sembra guardare alle contemplazioni fisiche di Antonioni e ai suoi luoghi liminali e di confine. Terre periferiche di nessuno nelle quali la stabilità resta fuori, nebulosa. In questo dedalo di vicoli e fabbricati arrugginiti – non-luoghi che, in mutazione costante, trasformano chi li abita – le macchine da presa dei cineasti cinesi tallonano nevroticamente i personaggi, pedinandoli come fossero emissarie di un destino che resta sempre alle spalle.

Come ha sempre fatto (e continua a fare, con qualche fatica in più) l’horror, il noir cinematografico, specie in territori come la Cina continentale, continua non solo parlare dell’ambiente e della cultura che lo produce ma, in parallelo, ad assimilare sensazioni, stati d’animo visuali da vivere, vedere e sentire, più che spiegare.

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Siciliano, nato lo stesso anno dell'uscita di Evangelion e qualcosa dovrà pur dire. Critico e giornalista cinematografico e televisivo, con una smodata passione per il cinema fatalista di Hong Kong e le polpette al sugo. Laureato magistrale in Storia dell'arte - con una tesi su Robert Rauschenberg e Tom Phillips che gli ha tolto il sonno e la ragione - così da poter orgogliosamente dire a tutti "prendi l'arte e mettila da parte". Nello staff del Catania Film Fest. Ritiene che un film al giorno non possa togliere il medico di torno, ne servono almeno due. Parla in terza persona solo in alcune occasioni.