Non è un caso che È stata la mano di Dio, ultima fatica cinematografica di Paolo Sorrentino, vincitrice del Gran Premio della Giuria a Venezia 78 nonché selezionata dall’Italia per concorrere al premio Oscar per il miglior film internazionale, inizi con una ripresa aerea in avvicinamento alla città di Napoli, per poi proseguire con un allontanamento, verso il mare aperto e le isole del Golfo. Si tratta dell’inevitabile movimento emotivo che molti, nati nella città partenopea, provano nei confronti del proprio luogo di origine, anzi di “scaturigine”, visto che a volte la città, con le sue difficoltà, ti vomita letteralmente fuori, oppure al contrario, con le sue ricchezze umane e culturali, ti abbraccia, a volte fagocitandoti.
Questo perché Napoli, archetipo della madre benigna e al tempo stesso terrificante, coccola e soffoca i suoi figli, li blandisce e li castra, li tiene al sicuro ma all’improvviso li abbandona, lasciandoli denudati di fronte al mondo. Probabilmente anche Sorrentino, come molti partenopei, nutre sentimenti contraddittori per questa città che non lascia mai indifferente nessuno, nemmeno chi ci passa solo come turista.
A partire da questo doppio movimento, sia emotivo che visivo, della macchina da presa di Sorrentino, andremo a indagare alcuni simboli messi in gioco dal film, legati a Napoli, ma anche alla storia cinematografica della città e, inevitabilmente, all’interiorità denudata dell’autore. Avvertiamo i lettori che questa analisi non ha alcuna pretesa di esaustività (per esempio non ci soffermeremo su Maradona) e soprattutto che da qui in poi saranno presenti spoiler, per cui consigliamo di leggere il nostro approfondimento soltanto dopo la visione del film.
L’incipit del film
Riprendiamo dunque dall’evocativo incipit del film: è l’alba e la macchina da presa si avvicina, a volo d’uccello, al lungomare deserto di Napoli, a seguire una solitaria macchina d’epoca (anni ’40 probabilmente) che percorre via Caracciolo. Questa immagine echeggia in un certo senso quella del carretto da morto che percorreva quelle stesse vie nell’episodio più dolente de L’oro di Napoli, il classico di Vittorio De Sica del 1954.
Nel film a episodi dell’autore di Ladri di biciclette, c’era questa sorta di intermezzo funereo, inserito tra gli altri episodi più famosi ed iperbolici, che inizialmente fu tagliato dalla produzione perché giudicato troppo deprimente. Si trattava del funerale di un bambino: senza dialoghi e alcuna musica, De Sica seguiva il percorso di un carretto elegante, con una piccola bara bianca, trainato da cavalli che, anche per gli anni ’50 in cui era ambientato, sembrava già desueto. Infatti accanto al corteo si vedevano sfrecciare macchine moderne. Al seguito c’era solo la madre del bimbo defunto che, sconsolata, offriva caramelle agli scugnizzi festosi che si accodavano allo scarno corteo. Con l’immagine del piccolo corteo funebre e degli scugnizzi che pensavano solo ad arraffare le caramelle, De Sica compì una mirabile sintesi nel cogliere lo spirito intrinseco di Napoli: città legata da un lato al culto e alla celebrazione della morte, dall’altro ferrata nello sberleffo e nella spavalderia, a volte caciarona, innanzi allo spauracchio del triste mietitore.
La desolazione della macchina d’epoca che in È stata la mano di Dio percorre il litorale partenopeo vuoto, assume la stessa valenza di elemento fuori contesto che aveva il carretto trainato dai cavalli nella città degli anni ’50 de L’oro di Napoli. Nel film di Sorrentino, Napoli viene colta all’alba, in un momento in cui buona parte della città è addormentata, durante il quale non c’è assolutamente nessuno, in una sospensione simile alla morte. Quella macchina fuoriuscita dagli anni ’30 – ‘40, che potrebbe tranquillamente sembrare un carro funebre, sembra portare già con sé un messaggio di morte, o comunque presagire un evento funesto, come poi sarà per il giovane protagonista.
Ecco dunque che con l’incipit del film, Sorrentino si connette già con uno dei temi portanti di Napoli: la morte. Anche gli esilaranti ed elaborati scherzi orchestrati da Maria, la mamma di Fabietto (l’alter-ego del regista incarnato dall’intenso Filippo Scotti) interpretata da una strepitosa Teresa Saponangelo, rientrano perfettamente nello sberleffo con cui Napoli si rivolge spesso alla morte, o comunque hanno a che fare con questo rapporto da sempre ambiguo e contraddittorio che la città intrattiene con l’aldilà e con le anime defunte. Gli scherzi di Maria sono linguacce fatte in faccia alla morte, che aspetta lei e il marito dietro l’angolo.
Un San Gennaro d’eccezione
Su quella stessa auto solitaria scopriamo esserci San Gennaro, o meglio una versione piuttosto sulfurea del Santo protettore della città, che fungerà da diavolo tentatore per zia Patrizia, personaggio fragile e bellissimo, interpretato da Luisa Ranieri, in una scena che ha il sapore del sogno e che nel traffico che ingolfa piazza del Plebiscito sembra strizzare l’occhio all’apertura del film di Federico Fellini 8½ in cui Mastroianni fuggiva da un’auto bloccata in un ingorgo. La versione sorrentiniana di San Gennaro viene interpretata da Enzo Decaro e forse non è un caso, per due ragioni.
Nel 1991 un giovane Paolo Sorrentino ebbe una primissima esperienza professionale ed umana piuttosto deludente proprio sul set di un film diretto da Enzo Decaro, Ladri di futuro. Sorrentino era solo un giovane assistente volontario e l’impatto con un set professionale, ma dai tempi e dalle modalità spicce, di una produzione low-bugdet dell’epoca, fu traumatico. In questo senso la presenza di De Caro in questo piccolo ruolo, potrebbe dunque essere significativa. D’altro canto il cameo del componente storico del trio comico napoletano La Smorfia, formato da Lello Arena, Massimo Troisi e dallo stesso Decaro, stabilisce inevitabilmente un legame con Troisi, alla cui sensibilità il regista di Le conseguenze dell’amore, soprattutto nella realizzazione di È stata La mano di Dio, si sente molto vicino, per sua stessa ammissione.
Il Monaciello
Nella scena onirica con Decaro ambientata in un palazzo antico di Napoli, vediamo, insieme con zia Patrizia, un Monaciello (o’ Munaciello). Questa figura tipica del folklore napoletano nascerebbe dai cosiddetti pozzari, ovvero gli addetti che, soprattutto tra i secoli XVI e XVII, gestivano e pulivano le numerose cisterne sotterranee per l’acqua, costruite in tufo, che tuttora ancora costellano il sottosuolo di Napoli. Tali cisterne avevano dei cunicoli verticali di accesso ai palazzi nobiliari, in cui venivano calati i secchi, nei quali i pozzari si arrampicavano tramite degli appositi appigli scavati nella roccia, praticando una sorta di free-climbing ante litteram. In questo modo tali pozzari, spesso di bassa statura, vestiti di mantello con cappuccio, simili appunto a dei piccoli monaci, avevano facile accesso alle case e, se non venivano pagati per i loro servigi, si vendicavano sgraffignando qualcosa. Quando scomparivano degli oggetti si diceva infatti che era stato il Monaciello.
Questi ultimi a volte non si limitavano a rubare qualcosa ma sembra addirittura che si sollazzassero con le donne che trovavano noiosa la compagnia del solo marito, alle quali regalavano gli oggetti rubati in altre case. Da qui la natura ambigua del Monaciello che a volte prendeva e a volte donava. Al Munaciello si attribuivano poteri magici, sia maligni, nel momento in cui faceva scomparire le cose, sia benigni perché, dalle sue apparizioni (anche in sogno) si potevano ricavare i numeri da giocare al lotto, e comunque il solo vederli portava fortuna. Infatti nel film di Sorrentino, San Gennaro esorta Patrizia a baciare il Munaciello sulla testa, per riuscire ad avere un figlio.
Il Monaciello incarna dunque l’archetipo dello spiritello piccolo e dispettoso, a volte benigno, che, nelle culture nordiche, assume spesso la figura dello gnomo o del nano, del cosiddetto piccolo popolo. Secondo il famoso psicologo Carl Gustav Jung, queste figure mitologiche, alle quali è assimilabile anche il Monaciello, rappresenterebbero le forze sotterranee dell’inconscio che, come i nani e gli gnomi che scavano la terra, sono sempre all’opera. Si tratterebbe di risorse psichiche energetiche di cui gli esseri umani non sono consapevoli ma che agiscono comunque e che hanno a che fare con l’istinto, l’intuizione e, a volte, con la capacità di prefigurare il proprio futuro in base alle predisposizioni naturali, infilandosi sui binari giusti per raggiungerlo.
Di tutto questo Fabietto è assolutamente inconsapevole ma in un certo senso lo presagisce, e non è un caso infatti che, proprio alla fine, quando si trova su quei binari che lo porteranno verso il proprio futuro, intraveda il Monaciello, elemento che richiama quelle forze inconsce di cui dicevamo. Tale figura è anche il riferimento ad un mondo soprannaturale, favolistico, che è sicuramente più affascinante della deludente realtà denunciata da Fabietto. Non è dunque un caso che Fabietto e zia Patrizia siano gli unici in tutto il film a vedere il Monaciello, evidentemente perché sono i due personaggi maggiormente inclini a usare l’immaginazione, in modo più allucinato la zia e come fuga da un doloroso reale il nipote.
Il confronto col guardiano della soglia
Non ultimo per importanza arriva il confronto con Antonio Capuano (interpretato in modo parossistico ma vicino alla persona reale da Ciro Capano), regista napoletano (autore di Pianese Nunzio 14 anni a Maggio) che è stato un mentore per Paolo Sorrentino negli anni ’90 (quando il regista era dunque già un po’ più grande dell’età di Fabietto nel film) e col quale scrisse la sceneggiatura di Polvere di Napoli, film a episodi del 1998 diretto dallo stesso Capuano che, almeno nella struttura a episodi, nel titolo e in certi toni, richiamava il classico di De Sica di cui abbiamo parlato all’inizio. Tutto torna, la vita è un cerchio.
Il confronto con il viscerale ma sincero Capuano rappresenta la svolta emotiva per Fabietto, la spallata che lo spingerà a uscire dal guscio e ad allontanarsi da Napoli, anche se magari non in maniera definitiva. Il cuore della conversazione accesa tra Capuano e Fabietto avviene nelle viscere di una grotta di Posillipo. Per citare il personaggio di Eugenio Scalfari ne Il divo, non è un caso neanche questo. Il confronto con il proprio inconscio avviene sempre in un luogo sotterraneo: è nei recessi più oscuri della terra e della propria psiche, dove agiscono quelle forze di cui si diceva, rappresentate dal Monaciello, e che in un certo senso intessono il destino di ognuno di noi, che avviene il confronto con le parti nascoste della nostra personalità.
Infatti Capuano non rappresenta solo la persona reale, ma anche una sorta di guardiano della soglia, figura archetipica che racchiude in sé quelle forze psichiche contrastanti, nascoste dentro di noi, che a volte ci fanno lo sgambetto, auto-sabotandoci, mentre altre volte ci stimolano. È un archetipo presente in tantissime mitologie e storie epiche delle più disparate culture, codificato in parte da Jung nella sua disanima dei simboli dell’inconscio, da Joseph Campbell, grande teorico dei miti, nonché ispiratore di George Lucas per Star Wars, infine utilizzato da Chris Vogler come strumento didattico, nel suo famoso manuale di scrittura per il cinema “Il viaggio dell’eroe”, dichiaratamente ispirato ai lavori di Jung e Campbell. Il guardiano della soglia rappresenta dunque l’ostacolo inconscio da superare per raggiungere il tesoro prezioso che si trova nella nostra interiorità. È il coacervo di tutte quelle forze sabotanti presenti dentro di noi, che ci vogliono riportare nella sicurezza dell’utero materno (Napoli e la famigila), non permettendoci di crescere e confrontarci col mondo. Tali forze, se affrontate nel modo giusto, possono fungere però anche da pungolo violento ma salutare, come è stato Capuano per Fabietto, ed evidentemente per lo stesso Sorrentino. Nel caso di Fabietto, dopo il confronto con il suo Guardiano della Soglia, una nuova consapevolezza lo farà uscire dalla risacca esistenziale in cui si trova dopo la morte dei suoi genitori e lo porterà fuori da sé, in cerca del proprio futuro e del proprio destino.
In questo consiste infatti la bellezza e la grande universalità di È stata la mano di Dio. Un’opera che si impone alle nostre coscienze, mettendoci, in maniera anche terribile se vogliamo, di fronte alle nostre scelte di vita, e porta a chiederci se anche noi, spettatori, abbiamo mai provato a fare quello stesso passo di Fabietto sulla strada della propria realizzazione di individui completi, consapevoli e, soprattutto, non “disuniti”.
Sulla giovinezza di Paolo Sorrentino consigliamo, come ideale integrazione al film, la lettura del bellissimo volume di Stefano Loparco “Dragoncelli di fuoco – Il primo (non) film di Paolo Sorrentino”, edito da Bietti (collana Fotogrammi) in cui si raccontano, in forma romanzata, sulla base di testimonianze di chi lo frequentava all’epoca, le prime esperienze cinematografiche del regista de “L’uomo in più”, tra cui la realizzazione del suo primo mediometraggio.