Dune – Parte Due continua il suo viaggio nella sala cinematografica (qui la recensione), con un riscontro sempre più entusiasta. Il film diretto da Denis Villeneuve sta convincendo praticamente chiunque, grazie ad una resa visiva e scenica davvero straordinaria e una capacità di gestire la narrazione che non è affatto inferiore all’abilità letteraria di Frank Herbert che, proprio a Dune, ha dato origine. Tra i tanti elementi che concorrono alla riuscita di questo secondo film – che supera nettamente il primo – c’è anche la presenza di un villain nerissimo e crudele, vestito dei toni cupi del grigio e del nero, il Feyd-Rautha Harkonnen interpretato magistralmente da Austin Butler. Una maschera di odio e violenza che, tuttavia, riesce a suo modo ad affascinare il pubblico. La domanda, dunque, sorge in modo quasi automatico: perché siamo attratti da questo assassino fuori controllo che solo nella violenza trova sollievo alle sue perversioni?
E se il male non fosse banale?
Quando si cerca di spiegare l’oscuro e il brutale, spesso il primo esempio che si fa è La banalità del male, il testo scritto dalla filosofa Hannah Arendt, redatto dopo aver partecipato al processo del nazista Adolf Eichmann. Durante il dibattimento legale, infatti, la filosofa si è interrogata su quanto banale fosse il volto della malvagità: l’uomo che si era reso complice dell’Olocausto non era altro che un ometto che sembrava più un burocrate a disagio, che la mente dietro numerosi crimini di guerra. Un concetto che si sposa anche con l’idea del male perpetrata dall’evoluzione della figura del mostro, come ad esempio nella letteratura di Stephen King, in cui il male non era più rappresentato da un corpo stra-ordinario, quanto piuttosto da creature simili a noi, che potevano abitare al nostro fianco. Il male, dunque, che si inserisce nella società e che, in qualche modo, ne diventa lo specchio. Proprio come fu nel caso della Shoah, in cui il male venne dall’essere umano stesso.
Per quanto possa sembrare azzardato, il confronto con l’Olocausto non è forzato, quando parliamo di Feyd-Rautha, per come è stato presentato in Dune – Parte Due. La fotografia del film vira immediatamente al bianco e nero e la disposizione degli uomini, delle formazioni e persino dell’arena fanno immediatamente pensare alla regista Leni Riefenstahl e al suo cinema di propaganda per il Terzo Reich. L’erede Harkonnen interpretato da Austin Butler ha qualcosa dell’esemplare nazista: il modo in cui solleva il pugnale per ricevere l’applauso, quasi scimmiottando il saluto romano, la sua capacità di fare deliberatamente del male per il semplice fatto di poterlo fare, rifacendosi su un popolo ritenuto inferiore, così come la sua appartenenza a una sorta di sistema di controllo delle nascite che vorrebbe solo eredi di un certo tipo. Eppure, Feyd-Rautha non è banale. Il suo aspetto glabro, privo di sopracciglia, lo rende immediatamente alieno, un corpo altro che ha solo qualche sembianza umana, ma che ne è anche distaccato. E allora lo sguardo dello spettatore si posa su queste creatura con curiosità, perché la percepisce come qualcosa di esterno, di lontano, qualcosa di non banale che non lo riguarda e che, magari, non lo costringe a confrontarsi immediatamente con l’idea che, al contrario, il male è insito nel quotidiano.
Libertà ed espressione
A volte la fascinazione dal male arriva da un senso quasi involontario di libertà: mancanza di aderenza alle regole, libertà di esprimersi senza paura del giudizio. Per la maggior parte di Dune – Parte Due noi seguiamo Paul alla ricerca della propria strada mentre si interroga su quello che gli altri penseranno o su come verrà percepito. Dei Fremen teme la tendenza a vedere in lui una sorta di Messia rinato. Ha paura di diventare un estraneo per Chani o una marionetta nelle mani di Lady Jessica, una Bene Gesserit dal cuore spezzato e inasprito dal desiderio di vendetta. Nonostante sia il protagonista, nonostante sia colui chiamato a liberare un intero popolo, Paul Atreides non appare mai come un uomo libero: al contrario, è schiacciato dalle aspettative degli altri, al punto che per esprimere se stesso e le sue potenzialità deve “accontentarsi” di diventare quello che altri hanno sancito che dovesse diventare, senza poter seguire ciò che desidera veramente.
Paul, in questo senso, è l’eroe buono, l’eroe bianco, il Prescelto che riesce in tutto quello che fa anche grazie alla purezza del suo cuore. Un classico eroe per cui noi tifiamo ma che, a volte, rischia di annoiarci. Che è un po’ il classico discorso che ci spinge ad essere più attratti dai cattivi che dai buoni, più dai personaggi grigi rispetto a quelli bianchi. Quindi sì, lo spettatore vuole senza dubbio che sia Paul a vincere, ma il fascino di Feyd-Rautha viene da un’altra dimensione. Quello che fa è amorale, sbagliato, deprecabile: eppure in ogni suo gesto c’è un sospiro di libertà che, invece, manca al protagonista e che lo imbriglia a qualsiasi legge sociale e culturale. Proprio come tutti noi. Questo, naturalmente, non significa che tutti sogniamo di diventare serial killer o che in ognuno di noi abiti un mostro che vorrebbe venire alla luce. Significa solo che riconosciamo quel lato libero che solo il male possiede e in una maniera adamitica ne siamo attratti, proprio perché esula da noi stessi e da tutto ciò che in cui crediamo o che proteggiamo.
Guardare altro da noi stessi
C’è un momento, in Dune – Parte Due, che rappresenta l’apice della messa in scena e della guerra: il momento del duello tra Paul Atreides e Feyd-Rautha Harkonnen. Senza voler fare troppi spoiler, possiamo dire che questo duello arriva in un momento importantissimo del film, dopo che Paul ha scoperto qualcosa di rivoluzionario che cambia il baricentro della sua moralità e delle sue convinzioni. Gran parte di questa scena è girata in controluce e lo spettatore non può fare altro che seguire le movenze di due creature fatte quasi in egual modo di oscurità. E, in questo senso, Feyd-Rautha e Paul rappresentano le proverbiali facce della stessa medaglia. Entrambi figli di una manipolazione a monte, entrambi con un destino sulle spalle – un po’ come nel caso della “parentela narrativa” che esiste tra Harry Potter e Neville Paciock -, entrambi destinati ad essere l’ultima speranza della loro casata, sono l’uno il “what if” dell’altro. Paul rappresenta ciò che Feyd-Rautha sarebbe potuto diventare se avesse conosciuto un amore scevro dal sentimento di morte e violenza.
Allo stesso modo Feyd è un futuro potenziale che Paul avrebbe potuto conoscere se si fosse lasciato guidare esclusivamente dal desiderio di vendetta per il destino della casata degli Atreides e dei suoi amici. E nella scena del duello, i due personaggi sono fermi, si guardano, ombre contro un sole morente. Un’immagine potentissima non solo perché coopera alla realizzazione di un film dall’impatto visivo da mozzare il fiato, ma anche perché rappresenta una scena che simboleggia alla perfezione l’atto di guardarsi allo specchio e di riconoscere le proprie oscurità. Ecco, dunque, perché a volte siamo affascinati dal male nelle storie che guardiamo in una sala buia: perché esso ci permette di sondare le tenebre senza doverne avere esperienza. Facciamo un salto nel buio pur sapendo che esso non ci ricoprirà, non ci farà annegare. C’è dunque un che di voyeuristico in questo sguardo spaventato e affascinante al tempo stesso e presumibilmente non è affatto un caso che a interpretare l’erede di casa Harkonnen sia stato chiamato Austin Butler che ha il phisique du role adatto a interpretare qualcuno che, per parafrasare William Shakespeare, nasconde un cuore di serpente sotto un volto d’angelo.
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