Vogliamo fare un gioco con voi. Pensate agli ultimi vent’anni di cinema horror, i titoli più famosi che vi possono ritornare alla memoria, lasciando perdere la qualità del singolo titolo. Sicuramente, se siete legati all’horror più pop e mainstream, vi torneranno in mente IT e il suo Pennywise, la saga di The Conjuring e Annabelle, il vecchio John Kramer di Saw (con il suo pupazzo sul triciclo) oppure Scream con i suoi assassini mascherati. Se, invece, le vostri nottate horror sono più sofisticate e autoriali, vi torneranno in mente titoli come The Witch o Midsommar, giusto per citarne un paio tra quelli più famosi.
Siamo, però, altrettanto certi che, pur non avendo difficoltà a ricordarvi i titoli dei film, vi verranno in mente pochissimi veri “mostri”, così spaventosi da tormentare i vostri incubi o da avere la forza necessaria di creare una nuova saga cinematografica che, solitamente, si tramuta in un appuntamento annuale di fine ottobre. Mostri come Jason Voorhees, Leatherface, Michael Myers, Candyman o Chucky. Perché sì, per quanto il cinema horror non stia conoscendo stanchezza, almeno al botteghino e per quanto riguarda la considerazione da parte del pubblico, negli ultimi vent’anni si fa fatica a trovare delle vere e proprie icone legate al genere. Ormai agli sgoccioli del 2023, con l’uscita di un nuovo sequel de L’esorcista e del decimo capitolo di Saw, la sensazione è quella di un genere incapace di creare nuovi mostri. Un bel paradosso che, tuttavia, sembra impoverire le potenzialità di un genere che sta attraversando un periodo molto florido. Insomma, dove sono i personaggi capaci di entrare di prepotenza nell’immaginario collettivo? Dove sono finite le nuove icone del cinema horror?
L’usato garantito
Se ci limitiamo al cinema horror mainstream non possiamo che avere sentimenti contrastanti sulla situazione attuale. Il genere sembra non accusare segni di stanchezza, con un ottimo responso da parte del pubblico. Solo quest’anno i nuovi capitoli di Scream, The Nun, Insidious, Saw e La Casa hanno portato a casa ottimi risultati, nonostante le critiche più o meno buone da parte del settore. E anche i nuovi arrivati, come M3GAN o Talk To Me, hanno dimostrato di poter dare inizio a potenziali franchise. Eppure, la sensazione più forte, che ci affligge come una lama, è di non star assistendo alla nascita di qualcosa di nuovo, ma solo di una fortunata reiterazione di un usato garantito.
Sotto la patina di sequel, remake, revival e requel (i remake mascherati da sequel), alcuni con la pretesa di cancellare e rinnovare le saghe storiche, come è successo con la nuova trilogia di Halloween e de L’esorcista, si nascondono le ombre di una grave crisi creativa. Quella incapace non tanto di creare nuovi franchise o successi al botteghino, ma di costruire nuove icone. Nel cinema horror mainstream degli ultimi vent’anni abbiamo avuto il piacere di perderci in universi condivisi, di ritrovare “vecchi amici” sotto nuove incarnazioni, ma non abbiamo fatto la conoscenza di nuovi mostri.
E non si tratta tanto di idee originali (come lo può essere Talk To Me), quanto la capacità di dar vita a un personaggio iconico che possa tormentarci per i prossimi vent’anni, se non di più. Si è preferito, invece, adagiarsi su vecchie glorie, capaci di essere più o meno rinnovate, ma ormai appartenenti a un passato di venti, trenta, se non cinquant’anni fa. Che in qualche modo dovrebbe rassicurare e ispirare fiducia, ma che causa anche stanchezza.
L’incapacità di definire la paura
E sì che, guardandoci attorno e provando a spiegare il successo attuale del genere horror al cinema, mai come ora gli spunti per provare un po’ di sana paura ci sarebbero tutti. Se le storie dell’orrore permettono di esorcizzare le nostre paure e i nostri traumi, non possiamo negare che tra problemi sociali, guerre in corso, riscaldamento globale e un mondo che si estremizza sempre di più, oggi avremmo solo l’imbarazzo della scelta per sfruttare una di queste tematiche e dare vita a una personificazione del Male originale e inaspettata (e Jordan Peele, con Noi, ci è andato davvero vicino a farlo).
Forse, al di là di una generale difficoltà a livello produttivo e industriale, il problema risiede in un paradosso che spaventa davvero. Forse siamo così circondati dalla paura da non poterla circoscrivere in un unico immaginario, incapaci di darle un nome di finzione, e quindi di creare un villain che può essere sconfitto o quantomeno combattuto. Se vogliamo evitare il puro e semplice intrattenimento (prendiamo ad esempio il caso di The Nun II, ennesimo capitolo che ricicla vecchi clichés di una saga ormai decennale), oggi l’horror più riuscito è quello non tanto legato al nome del mostro, ma a quello dell’autore. Viene premiata la tematica, la regia, la sceneggiatura o la metafora, viene messo in risalto il cosiddetto elevated horror, come se il genere avesse bisogno di essere qualcos’altro rispetto all’intrattenimento viscerale che è sempre stato (e, da appassionati, ci teniamo a ribadire che l’uno non dovrebbe escludere l’altro), ma perdendo così di vista la capacità di portare alla ribalta un volto (o una maschera) e un nome.
Al cinema fateci divertire
E se invece fosse proprio il pubblico a non volere più nuove icone? Forse non è tanto la pigrizia di un’industria che si adagia su titoli già noti e dinamiche ormai invecchiate, ma il desiderio dello spettatore di sentirsi, almeno in sala per il tempo di un film, al sicuro. In un mondo in cui la paura è talmente fumosa da penetrare e rimanere anche dentro il singolo senza poterla definire, il genere horror deve venire a patti con la poca voglia di essere davvero scioccante. Il mostro diventa un social trend replicabile (il balletto di M3GAN) o un costume da Halloween (la maschera di Ghostface) e l’orrore è costretto a viaggiare solo attraverso una dimensione paranormale composta da demoni, spiriti e implausibilità irreali, così da creare una barriera di finzione molto spessa, capace di mantenere le distanze di sicurezza.
Non a caso l’esplosione del genere crime, come versione meno violenta e in qualche modo più voyeuristica, ma legata al reale, dell’horror, sta vivendo un periodo ancora più florido. Come se i veri assassini, i veri omicidi e la cronaca di eventi terribili da soli siano abbastanza per appagare il nostro lato morboso. Al cinema, invece, si predilige il semplice intrattenimento sulla morte. Forse, in una contemporaneità in cui lo stesso pubblico di giovani spettatori è più sensibile a rinnovare e correggere tematiche “vecchie” (la rappresentazione di minoranze, un sempre più disinteresse verso i contenuti sessuali, il rapporto con le generazioni precedenti, il senso di appartenenza) non si sente il bisogno di costruire qualcosa di nuovo lavorando su tutti quegli aspetti della vita che ci spaventavano. Almeno non prima di aver chiuso i ponti col passato.
Esistono nuove icone del cinema horror?
Se dovessimo ragionare in termini di film horror memorabili apparsi negli ultimi anni ci rendiamo presto conto che le nuove icone del genere sono le idee di partenza da cui nasce la storia. Il mondo silenzioso di A Quiet Place, l’intelligenza artificiale di M3GAN, lo schiocco di lingua in Hereditary, il bianco e nero e il formato di The Lighthouse o la mano che permette di mettersi in comunicazione coi morti in Talk To Me. Nel cinema horror più di nicchia, quello che non si fa troppi problemi a scandalizzare senza filtri, forse l’idea più malsana e memorabile degli ultimi anni è il centipede umano di Tom Six. Ma, in definitiva, esistono delle nuove icone nel genere?
L’unica che davvero ha la forza di esserlo appartiene a un film piccolino e quasi autoprodotto, diventato presto di culto, ma che è ancora ben distante dall’essere considerato mainstream al pari di un nuovo capitolo di Saw. Stiamo parlando di Art il Clown, villain malefico della saga di Terrifier di cui si sta realizzando il terzo capitolo. Con un suo costume e un suo make-up preciso, con un’aurea da Charlie Chaplin malvagio, Artie ha tutte le caratteristiche per diventare un nuovo classico del genere. Memorabile nei suoi momenti splatter, con punte di gore davvero perverse e irragionevoli che proprio negli ultimi anni non si sono più viste spesso, Terrifier (soprattutto il più riuscito secondo capitolo) dimostra che l’horror è tutt’altro che un genere in sofferenza e che creare nuove icone è possibile.
A patto di rischiare ed esagerare. Il che non è scontato, perché mosche bianche come Terrifier dimostrano che l’horror non può essere circoscritto in una zona accomodante, almeno se il bisogno è quello di dare vita a figure meschine che con una frase, un’azione, un modus operandi ci colpiscono così forte da risultare indimenticabili. Per una volta, sarebbe bello uscire dalla sala con la consapevolezza di essere posseduti, anziché sentirsi alla fine dell’ennesimo stanco esorcismo.
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