“Sai come mi sono fatto queste cicatrici?”, si chiedeva qualcuno tanto tempo fa. Una domanda scomoda che batte forte anche nell’ultimo film di Luc Besson. Come fa la lingua sui denti che fanno più male. Perché Dogman, in concorso all’ultima Mostra del Cinema di Venezia, non è altro che una lunga elaborazione del trauma. Due ore passate al fianco di Doug, ragazzo dal passato balordo che trova nei cani le uniche creature in grado di ascoltarlo davvero. Due ore passate dentro cicatrici che non prendono aria e faticano a chiudersi.
Tutto raccontato da un dramma metropolitano spietato, in cui il regista francese tocca temi molto attuali: mancanza di empatia, solitudine e nobili desideri frustrati. Tutti elementi che ci hanno riportato ai fasti di Joker. Come se Arthur Fleck e Doug fossero anime in pena messe davanti allo stesso specchio, pronti a raccontarsi storie di dolori e cicatrici. E allora ecco perché Dogman potrebbe davvero essere il nuovo Joker.
Confessione di un freak
Vi ricordate il finale di Joker, vero? Arthur Fleck si sfogava in diretta tv, urlando a gran voce il grande problema della nostra società: la mancanza di empatia. Ognuno pensa solo a sé stesso, senza mettersi mai nei panni degli altri. Un urlo disperato che da Gotham City arriva anche nella fetida città di Doug, dove il ragazzo vive sguazzando nella sua tana, lontano da tutto e tutti. Diffidente nei confronti dell’umanità che lo ha tanto traumatizzato e deluso, il nostro vive circondato da un branco (o meglio “comunità) di cani. Gli unici essere viventi dotati di quell’empatia che gli umani hanno ormai dimenticato. Insomma, proprio come Arthur anche Doug è un reietto, un abbandonato, un freak.
In questo contesto urbano pieno di degrado, avaro di affetto e svuotato di umanità, Dogman adotta una tecnica narrativa molto simile a quella di Joker: la confessione. Se Arthur Fleck raccontava la sua vita a una psicologa, Doug lo fa con un’assistente sociale pronta ad ascoltare la sua triste storia. Un espediente perfetto per mettere il protagonista a nudo davanti al pubblico, con il personaggio che cerca di guadagnarsi almeno la nostra compassione. Spoiler: ci riusciranno entrambi. Perché Dogman, proprio come Joker, tocca corde così intime che l’empatia te la strappa di dosso.
Bisogno d’amore
Nonostante la sua patina crime da thriller metropolitano, Dogman non è altro che la storia di una persona che ha disperato bisogno d’amore, e così se lo va a prendere dalle creature più altruiste del pianeta: i cani. Tutto parte da un vuoto affettivo incolmabile. Da un passato familiare impietoso, che riconduce tutto a radici marce. Rieccoli Doug e Arthur davanti allo specchio. Perché se in Joker i problemi iniziavano in un passato oscuro tra le mura domestiche, in Dogman non siamo poi tanto distanti dallo stesso trauma.
E allora, se il buco nero familiare genera un’anima in pena pericolosa e instabile, ecco che lo spettacolo diventa quasi l’unica valvola di sfogo e un pretesto per sentirsi finalmente amati. Desiderare il palco significa avere finalmente un pubblico e bramare almeno le loro di emozioni. Applausi, risate, commozione. Doug cerca un briciolo di calore umano esibendosi come cantante in un club, proprio come Arthur faceva come stand-up comedian. Senza dimenticare l’altro prestigio dello show: la possibilità di diventare qualcun altro. Maschere, trucco, parrucche. Laddove la vita vera ti ha deluso, lo spettacolo ti concede l’illusione di un altrove migliore.
Fidarsi di un fuoriclasse
Ci sono film che senza certi attori non sarebbero la stessa cosa. E poi ci sono film che sono scritti e girati a immagine e somiglianza del loro protagonista. Dogman appartiene a entrambe le scuole di pensiero, perché tutto il film è basato sull’incredibile talento di Caleb Landry Jones. Un attore istrionico, che nel corso della sua carriera ha sempre sorpreso per il suo carisma, la sua presenza scenica e soprattutto la rara capacità di essere imprevedibile. Un camaleonte umano che anche in Dogman è sempre cangiante, instabile, mai uguale a se stesso. Il suo Doug cambia di continuo, passando dalla dolcezza all’inquietudine in un battito di ciglio.
Jones cammina come un funambolo su un filo sottile, sospeso tra rabbia e tenerezza, bisogno d’amore e sete di vendetta. Tutto questo rende Doug un uomo complesso e pieno di contraddizioni. Ci riesce lavorando di sfumature, con Besson che gli sta addosso tutto il tempo per carpirne silenzi, sguardi, respiri. Una performance così intensa, autentica e aggraziata (nonostante la disgrazia) che ci riporta alle danze disperate di Joaquin Phoenix in Joker. Siamo sempre davanti allo stesso specchio, e sì, le cicatrici si vedono benissimo.
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