Per la maggior parte della storia del cinema e della tv, i personaggi femminili sono stati scritti da autori maschi. Pertanto, la storia della rappresentazione femminile sullo schermo è una storia di donne viste attraverso lo sguardo maschile. Ciò ha portato allo sviluppo di topoi che, nel tempo, hanno plasmato le donne come esseri unidimensionali, privi della naturale complessità e ambiguità riservate ai personaggi maschili. Ma c’è una caratteristica importante che la maggior parte di queste figure sembra condividere universalmente: la mancanza di desiderio sessuale.

Ripensando alla storia della rappresentazione femminile sullo schermo, si può rapidamente constatare che se in passato alle donne è stato concesso un qualsiasi tipo di agency sessuale, è stato in una luce tipicamente negativa. Proprio come in tutte le altre battaglie per una rappresentazione significativa sullo schermo, la mancanza di piacere femminile nei film è una questione dalle molteplici sfaccettature. La qualità e lo scopo della rappresentazione sono tanto preziosi quanto la rappresentazione stessa, e questo richiede una massiccia revisione della mentalità. La domanda che occorre porsi quando si guarda il piacere femminile al cinema è: “A chi è destinato?”. Per gran parte della storia del cinema la risposta è stata: allo spettatore maschio eterosessuale.

Dall’ambiente accademico a TikTok, la concettualizzazione dello sguardo maschile di Laura Mulvey è un argomento di discussione popolare quando la sessualità viene rappresentata sullo schermo. Qualsiasi medium che fornisca a un pubblico maschile eterosessuale un’opportunità esclusiva di identificarsi con l’oggetto rappresentato partecipa e normalizza lo sguardo maschile. Scegliere cosa fare col proprio corpo è incredibilmente liberatorio ed è un diritto che dovrebbe essere universale. La mancanza di una rappresentazione sessuale autentica nei media fa sì che anche le espressioni più basilari del desiderio queer e femminile sembrino tabù, persino minacciose.

Fortunatamente la rotta sta (lentamente) cambiando, anche nel cinema più mainstream. Cerchiamo di seguirla attraverso l’analisi di tre film usciti al cinema in Italia nell’arco di un anno: Miller’s Girl, Nosferatu e Babygirl.

Miller’s Girl

Una scena di Miller’s Girl – © Lucky Red

Il film è incentrato sulla studentessa delle superiori Cairo Sweet che instaura uno stretto rapporto con il suo insegnante di letteratura inglese, Jonathan Miller. Dopo che lui le assegna un compito di scrittura impegnativo, la natura della loro relazione si trasforma in una rete di inganni sempre più complessa. La radice del conflitto di Cairo è la solitudine. Il film si apre con lei che si lamenta di come i suoi ricchi genitori la lascino spesso solo in una grande casa vuota: trova conforto solo nella lettura e nella scrittura. Sogna di frequentare Yale, ma per riuscirci deve scrivere un saggio brillante. Cairo si rende presto conto di non avere forse questo grande talento poiché è stata isolata nella bolla del suo privilegio e della sua piccola città del Tennessee. Ha solo voglia di assaporare un’esperienza reale che la soddisfi davvero.

Dopo essere stata ispirata dalla sua migliore amica Winnie che ama flirtare con l’allenatore del liceo Boris Fillmore per divertimento, Cairo punta a sedurre Miller, che si ritrova ammaliato dalle astuzie della sua brillante protetta. Ciò che inizia con sorrisi gentili e chiacchiere spensierate si trasforma presto in un flirt, in intimità emotiva e in baci sotto la pioggia battente. Il film gioca con Lolita di Nabokov, ma in chiave più dark e sporca. La giovane studentessa rimane affascinata dal concetto di attività sessuale e dal processo che c’è dietro. Desidera sperimentarla in prima persona ma (cosa più importante) vuole sapere se questa esperienza la cambierà per sempre o se ne pentirà per il resto della sua vita.

Cairo non vuole farlo con chiunque: vuole farlo con il suo insegnante, un uomo adulto, sposato e autore di successo. Quindi, inizia a elaborare piani su come convincerlo a intraprendere questa attività con lei.

Un Southern Gothic contemporaneo

Una scena di Miller’s Girl – © Lucky Red

“La sessualità delle donne non è qualcosa che dovremmo fingere non esista”, afferma la regista del film Jade Halley Bartlett. Miller’s Girl non lo finge mai, bensì parla del suo lato più oscuro e dimenticando le questioni morali di giusto e sbagliato. Alcuni critici hanno paragonato il film a She Said, The Assistant e Women Talking, ma nella sua esecuzione fredda, spietata e ironicamente asciutta, il film è molto più simile a Tár. Miller’s Girl, d’altra parte, è un film sul sesso e sul controllo che fa sembrare Challengers un innocuo gioco per bambine/i: lavora sulla complessità sia del voler amare che del voler distruggere, su cosa significa essere giovani e belle e poter utilizzare quest’arma per rovinare la vita delle persone che ti frenano e che ti reputano un semplice oggetto.

Il motivo per cui il film ha fatto infuriare così tanti ragazzi è multiforme: bisogna considerare la totale e completa mancanza di agency concessa alle ragazze adolescenti nella cultura occidentale e ciò che affronta ogni giovane donna che osa mostrare un qualsiasi segno di maturità sessuale. L’ambientazione e lo stile Southern Gothic posizionano il film come un ironico collegamento all’opera di William Faulkner: il personaggio di Jenna Ortega è in qualche modo dotato di un dono soprannaturale per la scrittura, come se secoli di narrativa Southern Gothic americana si fossero infiltrati nell’utero di una persona e avessero creato Cairo.

Miller’s Girl ci parla di cose primordiali e represse: quando costruisci un intero modello artistico sulla glorificazione dell’ego maschile bianco, sulla celebrazione dei suoi gusti raffinati e sulla denigrazione del volgare e del femminile, un’opera d’arte che è sia femminile che “volgare” è naturalmente destinata a respingere.

Il lupo e la capra

Una scena di Miller’s Girl – © Lucky Red

Miller’s Girl è anche una favola. È la storia di una capra che sconfigge un lupo, dopo aver riposato nelle sue fauci aperte. Offrirsi alla bocca di un animale affamato non riguarda la morte, bensì il controllo e le piccole gioie che una ragazza può rubare per sé in un posto che si preoccupa solo della sua lana, del suo latte e della sua carne. Questa è un’opera intensa e sensuale, che amplia la gamma di Ortega come interprete e che si appoggia sulle capacità di Martin Freeman di trasmettere affabilità ma anche pericolo: il suo signor Miller è una creatura di impulsi sessuali e depravazione che pensa di essere al di sopra di quel genere di cose.

La performance richiede a Freeman di ignorare ogni singolo istinto e di abbandonarsi all’oscurità. La sua rapida caduta in disgrazia è ciò che Cairo Sweet sta cercando di cavalcare. Il conflitto centrale della trama non è se faranno sesso o meno, quanto piuttosto il mistero di ciò che Cairo spera di ottenere da ciò. Miller’s Girl parla di quella ricerca di potere e comprensione, dell’incredibile emozione di calpestare la testa di qualcuno che ti usa e poi ti getta. Cairo distrugge la sua stessa innocenza e fa leva sulla sua stessa fragilità tanto quanto, se non di più, fa il signor Miller – una distruzione causata da ciò che lei pensa sia amore.

E tuttavia sale ancora i gradini di marmo per incontrarlo e, con le lacrime agli occhi, lo osserva seduto da solo e infelice, distrutto: non sappiamo se è orgogliosa, infelice o se vuole ancora afferrarlo e premere le sue labbra contro le sue. Forse tutte e tre le cose. Per parafrasare Faulkner:

Forse avevano ragione a mettere l’amore nei film. Forse non può esistere da nessun’altra parte.

Nosferatu (2024)

Una scena di Nosferatu – © Universal Pictures

Il romanzo gotico femminile raggiunge popolarità tra le donne borghesi nel XVIII e XIX secolo, scritto in gran parte dalle stesse donne borghesi. Un genere che rappresentava il rapporto ambivalente con la vita domestica e il desiderio, lacerato tra la paura di essere intrappolato e il peso di un investimento erotico (ma anche di classe) nei confronti dei persecutori. Sappiamo che Ellen è costretta a soffocare la sua voracità, la fonte di disconoscimento da cui certamente scaturisce il suo tumulto interiore, e possiamo ragionevolmente discernere che il suo matrimonio con Thomas le offra un posto “sicuro” in cui esprimere i suoi desideri, ma non del tutto libero dalla sua intollerabile e persistente vergogna.

“Lui è la mia malinconia!”, confessa al marito inorridito. Sesso e morte: ecco di cosa parlano tutte le storie di vampiri, compreso il Nosferatu di Eggers. Ambientata in una Germania del XIX secolo meticolosamente ricostruita, la storia è incentrata su Ellen Hutter, una giovane sposa tormentata da sogni oscuri. La sua malinconia peggiora quando suo marito Thomas viene mandato a negoziare un accordo immobiliare con un solitario conte della Transilvania – che scopriremo essere Nosferatu e la fonte dei sogni di Ellen.

Il film parla degli atteggiamenti del XIX secolo nei confronti delle donne: la parola “isteria” è usata intenzionalmente e in modo mirato nei molti modi in cui gli uomini attorno a Ellen cercano di comprendere la sua afflizione come qualcosa di diverso da ciò che è, ma nel farlo, ovviamente, parla anche degli atteggiamenti del XXI secolo e della forza distruttiva che è l’ignoranza maschile volontaria.

Sono un appetito, niente di più

Una scena di Nosferatu – © Universal Pictures

Nel Nosferatu di Eggers, al contrario dei due film precedenti, il focus è il viaggio verso un orgasmo femminile agognato sin dalla prima inquadratura. Il desiderio di Ellen di raggiungerlo è così forte che provoca naufragi, porta la peste, uccide e rende folli le persone. Sì, il vampiro qui è esattamente l’incarnazione di questo desiderio. Ben prima che Ellen invocasse il suo “angelo custode”, il mostro esisteva già dentro di lei. Knock la descrive, all’inizio del film, come una silfide nella sua bellezza, e questo diventa una sorta di tema ricorrente per gli uomini che le gravitano intorno: concludere che Ellen non sia una donna di questo mondo.

Ciò deriva dal fatto che sono tutti profondamente spaventati dal suo “appetito” – non è un caso che Thomas sovrapponga spesso il volto di Orlok a quello di sua moglie. Il conte dichiara a Ellen “Sono un appetito, niente di più”, e questo appetito è trionfalmente dominante nella sua mostruosità, nella sua fame e nella sua inesauribile spietatezza. È qualcosa nella quale crogiolarsi per la ragazza, che non può più essere ignorata. Probabilmente non è il “patto” di Ellen con Orlok a scatenare l’ira del vampiro quando lei sposa Thomas. Questi è gentile e premuroso, un principe azzurro e un eroe, ma non soddisfa Ellen, e quindi lei evoca il desiderio da un’altra fonte.

Ciò che le fiabe non dicono è che la storia non finisce con un bacio e una promessa di eternità, bensì è il letto a costituire la Soglia. Proprio come il proverbiale drago deve essere ucciso e le incomprensioni tra amanti devono essere sciolte perché la coppia possa unirsi, anche il desiderio femminile deve essere nutrito. Nosferatu rappresenta questo: ciò che una donna è disposta a sacrificare (qui sì) per avere finalmente la possibilità di raggiungere il piacere che le è sempre stato negato in una società repressiva.

Un appagamento definitivo

Una scena di Nosferatu – © Universal Pictures

Una delle perdite più memorabili tra quelle rappresentate è l’uccisione delle figlie di Anna, l’amica di Ellen. Il potere materno, considerato uno dei pilastri dell’essere donna, ci viene qui gettato in faccia e la scena finale con le lenzuola intrise di sangue che potrebbero facilmente far pensare a un parto, raccontando in verità tutt’altro. Il desiderio oscuro è difficile da affrontare per Ellen, perché è una donna vittoriana e affrontarlo significa inevitabilmente premere il naso contro il vetro e affondare gli occhi il più possibile nei limiti della natura umana.

Il punto di questo tipo di desiderio è che è pensato per spingere i propri limiti, per testare e sondare i propri confini. In Nosferatu il “sacrificio” di sé non comporta una rinuncia per Ellen, bensì il contrario: una vera e propria liberazione, un’accoglienza del proprio desiderio e un appagamento definitivo, che in una società come quella – che associa la sessualità femminile alla sola procreazione – non può che comportare, infine, la morte.

Babygirl

Una scena di Babygirl – © Eagle Pictures

Babygirl racconta la storia di Romy Mathis, CEO di un’azienda di automazione robotica, la cui vita attentamente curata si disfa quando inizia una relazione con Samuel, giovane stagista. In superficie, il film esamina le intersezioni tra squilibrio di potere, vulnerabilità e desiderio proibito, ma la sua vera forza sta nel modo in cui rivela silenziosamente i sistemi sociali pervasivi che intrappolano i suoi personaggi, dettando le loro azioni e limitando le loro scelte. La vita di Romy, il suo ufficio aziendale sterile, il suo matrimonio emotivamente distante, la sua dipendenza pervasiva dal telefono che si insinua in quasi ogni scena, è il riflesso di una società capitalistica poco gratificante che privilegia la produttività e il controllo rispetto all’intimità e alla connessione.

Come capo di un’azienda creata per sostituire il lavoro umano con le macchine, Romy incarna proprio l’alienazione da cui cerca di fuggire. La sua relazione con Samuel è un tentativo di reclamare una parte di sé perduta in questo mondo. Ma ciò che Romy scopre invece è quanto profondamente la sua vita sia radicata in sistemi di dominio e sfruttamento.

Desiderio e controllo

Una scena di Babygirl – © Eagle Pictures

Babygirl però non è solo un film sulle illusioni del controllo, ma su una donna che quello stesso controllo lo riprende. È impossibile ignorare quanto spesso i desideri sessuali dei personaggi femminili siano inquadrati attraverso il dolore e l’umiliazione. Il film posiziona le esperienze di Romy come una forma di rivendicazione, una tregua dalla sterilità emotiva del suo matrimonio e dal peso della sua persona aziendale. E la sua sottomissione sessuale, pienamente consensuale, sovvertire questo potere. La storia di Romy esiste all’ombra di realtà sistemiche più ampie.

La sua vulnerabilità e il suo desiderio sono accentuati dal suo isolamento, da un mondo in cui l’intimità è frammentata, la connessione è mercificata e le relazioni sono ridotte a transazioni. Il film suggerisce sottilmente che la sua sottomissione potrebbe derivare sì dalla sua sessualità, ma anche da un desiderio di connessione in un mondo che offre poche opportunità per questo. Il suo piacere è, quindi, una forma di libertà più ampia.

Sessualità come strumento narrativo

Una scena di Babygirl – © Eagle Pictures

La cornice del film sul risveglio sessuale di Romy solleva interrogativi su come i desideri sessuali dei personaggi femminili siano spesso usati come strumenti narrativi. Il singhiozzo di Romy dopo il suo primo orgasmo con Samuel è un momento di cruda vulnerabilità, ma è anche profondamente scomodo. Il suo piacere è rappresentato come sia potente sia distruttivo, una forza che destabilizza il suo senso di sé.

E ciò rompe l’idea che la sessualità delle donne è intrinsecamente pericolosa, sia per loro stesse che per gli altri, e debba quindi essere contenuta, negoziata o controllata. Babygirl rivela la necessità di queste nuove narrazioni, che esplorano il desiderio femminile senza più ridurlo a lotte di potere.

 

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Ilaria Franciotti ha conseguito la laurea triennale in DAMS, la laurea magistrale in Cinema, televisione, produzione multimediale e il master in Studi e politiche di genere all’Università degli Studi Roma Tre. Si occupa di narratologia e drammaturgia del film, gender studies, horror studies, cinema e serie TV delle donne. Insegna analisi e storia del cinema e teoria e pratica della sceneggiatura. Ha collaborato con Segnocinema, è redattrice di Leggendaria e collaboratrice di The Post Internazionale, e ha scritto per diverse riviste di cinema (tra cui Marla e Nocturno). È autrice di Maleficent’s Journey (Il Glifo, Roma 2016), A Brave Journey. Il viaggio dell’Eroina nella narrazione cinematografica (Ledizioni, Milano 2021), ed è curatrice e coautrice di La voce liberata. Nove ritratti di femminilità negata (Chipiùneart, Roma 2021). Dal 2023 è curatrice del podcast Ilaria in Wonderland, interamente dedicato al cinema horror.