Tutto parla di confini in West Side Story, nel film di Steven Spielberg del 2021, adattamento dell’opera musicale di Arthur Laurents, Stephen Sondheim e Leonard Bernstein già portata al cinema dal regista Robert Wise e dal coreografo Jerome Robbins. Le scelte di racconto (a opera del drammaturgo Tony Kushner) e di regia, servono a rendere concreto e politico ciò che nell’originale era allusione astratta: più che di realismo, è questione di iperrealismo, di esaltazione di certi dettagli che deformano la realtà diventando dichiarazione d’intenti, di poetica. Lo si vede in particolare con una sequenza di danza, il ballo nella palestra.
Il giardino dei finti confini
In questa sequenza che arriva a circa mezz’ora dall’inizio del film, Jets e Sharks, ossia le due gang che all’inizio abbiamo visto affrontarsi a viso aperto per la “conquista” del quartiere, sono costrette a tollerarsi, perché entrambe vogliono partecipare al ballo, prendersi una tregua dalla battaglia ballando con le proprie compagne.
È una scena chiave del film per diversi motivi: il primo è personale, legato a Spielberg, che da sempre sognava di fare un musical – e West Side Story è stato, con Lawrence d’Arabia, il film formativo del regista, il suo imprinting potremmo dire – e che nel corso dei suoi film ha spesso introdotto elementi di coreografia musical: il primo tentativo fu in uno dei suoi più grossi tonfi, il kolossal comico 1941, con una sequenza di ballo collettivo in una palestra che rimanda precisamente al classico di Wise & Robbins; il secondo è invece interno al film, perché la sequenza sembra condensare il succo stilistico e narrativo del film; il terzo nasce invece dal confronto con la stessa sequenza nel film del 1961, in cui si comprende il lavoro di ripensamento che Spielberg fa su quell’opera e quindi anche la sua presa sul presente.
West Side Story è un film fatto di confini – fisici, culturali, etnici, politici e intimi – in cui ogni scena è costruita su linee reali o immaginarie da non superare, che delimitano gli spazi in cui i personaggi possono o devono muoversi, le aree in cui essere loro stessi senza paura di scontrarsi: non solo le zone che i latinos (portoricani) o i caucasici (europei immigrati di seconda generazione) abitano o i terreni in cui si scontrano, ma anche i posti in cui i singoli personaggi non devono invadere. Una struttura visiva e stilistica fatta di soglie e limiti che, se non sono espliciti, sono talmente introiettati nella mentalità dei protagonisti da fare di molte sequenze coreografate un vero e proprio scontro tra masse e piani.
Cerchi e linee
Il ballo nella palestra ovviamente mette in scena questa struttura ma al tempo stesso introduce l’elemento drammatico alla base del film, ovvero cosa succede quando quei limiti vengono superati e le soglie oltrepassate? Jets e Sharks vengono invitati dal maestro di cerimonie del ballo a mescolarsi per una volta, a dimenticarsi di quei confini e ballare gli uni con le altre: queste divisioni sono visualizzate sempre attraverso linee rette (i suddetti confini), per questo il maestro chiede ai due gruppi di disporsi in cerchio, per una volta, la figura geometrica che abolisce confini e distinzioni, ma la richiesta viene ignorata e le linee rette presto ripristinate, con le danze che rispettano quei confini pur spingendosi sempre al limite, sfidando gli altri a superarli, ma senza inoltrarsi oltre, replicando sempre le divisioni, gli spazi separati e la regia di Spielberg lo sottolinea di continuo costruendo simmetricamente le inquadrature, sfruttando le righe disegnate sul parquet per costruire i movimenti dei ballerini.
Ecco che però arriva il conflitto drammaturgico che smonta le strutture predefinite: entra in scena Tony, ex-leader dei Jets che, dopo essere stato in carcere, non vuole più saperne del conflitto, e appena giunto sulla pista vede Maria, sorella del capo degli Sharks che a quella rivalità non crede, intenta a ballare con Chino. Quando i loro sguardi si incrociano i due ragazzi si bloccano, mentre tutti gli altri continuano a ballare, e i loro corpi entrano in comunicazione a distanza approfittando dei corridoi creati dai filari dei ballerini.
Tony tra quei filari si muove, Maria lo segue con lo sguardo e insieme si dirigono all’estremità della palestra, dietro gli spalti, un altro separé, un altro oggetto che divide i personaggi e le loro intenzioni da quelle del resto del gruppo: la loro intenzione è espressamente quella di superare i confini e mescolarsi, attraverso il ballo prima e l’amore poi.
Dietro quei gradoni, Tony e Maria si avvicinano e la ragazza comincia a ballare, una danza fondata sulla circolarità in cui, pur senza toccarsi, i loro corpi si mescolano dolcemente, fino a toccarsi, afferrarsi, avvicinarsi. Baciarsi.
Sulla scorta di Romeo e Giulietta però, quel bacio sarà l’inizio della fine, perché vuole cancellare distanze e confini su cui sono state costruite intere identità e quelle identità, quella di Bernardo o di Riff, ma anche quella di Anita, la compagna di Bernardo e migliore amica di Maria, non vogliono farsi cancellare, non vogliono integrarsi. Preferiscono la guerra.
Il falso mito dell’identità
Il senso profondo di questa sequenza, che è anche il senso dell’intero film, è però più facilmente comprensibile se confrontiamo questa Dance at the Gym con quella del ’61, se si illuminano le differenze stilistiche tra le due sequenze e tra l’intero impianto registico dei due film.
La palestra del film originale, apparentemente più piccola, è teatro di un continuo rimescolamento tra fazioni che si stuzzicano, invadono i territori altrui e poi si ritirano esattamente come avviene nella scena d’apertura; nel film di Spielberg invece, la difesa del territorio è qualcosa che viene prima della conquista del campo avversario. Così quando Tony arriva in palestra e Cupido scocca la sua freccia celebrando il fatale colpo di fulmine con Maria, Wise decide di isolare i due ragazzi filtrando l’immagine, sfocando tutto il resto attorno a loro, lasciando che i due innamorati eseguano la loro danza di corteggiamento in mezzo agli altri, in un isolamento mentale, a differenza dei loro corrispettivi contemporanei.
D’altronde, tutta la prospettiva di estetica e regia dei due film sembra complementare: Wise e Robbins cercano l’astrazione, usano i colori come macchie in movimento (l’apertura a cura di Saul Bass, un’ouverture visiva al posto dei titoli di testa), i set e le scene come spazi stilizzati, radicalizzano l’origine teatrale esaltando il movimento dentro l’immagine con la decisione di muovere poco la macchina da presa e affidarsi al montaggio; Spielberg invece estremizza la concretezza, la fisicità, la materialità di corpi, sentimenti, luoghi, rende la macchina da presa un corpo danzante, fa con i colori un lavoro figurativo molto preciso. I primi rendono danza gli scontri corpo a corpo, il secondo mette in scena il ballo come un atto di violenza fino a renderlo metonimia dello stupro, più che nell’originale.
Il senso di queste differenze è lampante, specie se lo si collega alla distanza storica, ai 60 anni intercorsi tra le due versioni: il West Side Story classico è un film che racconta la sconfitta dell’integrazione e la vittoria del razzismo su cui l’intera civiltà americana è stata fondata; quello contemporaneo invece mostra una battaglia più vicina allo spirito del tempo, in cui la costruzione e la difesa estenuata delle identità culturali, razziali o sessuali rischia di minare alla base l’idea di comunità, uccide il falso mito del melting pot e lo sostituisce con nuovi steccati, riedificando un mondo di barriere, di confini, di righe da non superare, ma nelle quali credere di sentirsi compresi e protetti.