Gli occhi dei cinefili in questi ultimi giorni si sono illuminati vedendo apparire sugli schermi Nightmare Alley – La fiera delle illusioni, il nuovo film di Guillermo Del Toro che per la prima volta rinuncia al soprannaturale e al fantastico per raccontare il mostruoso che è dentro l’essere umano attraverso il noir, genere che richiama subito la vecchia Hollywood, il bianco e nero, la mitologia dei duri e delle dark ladies. Una mitologia che il film di Del Toro prende dal vecchio film del 1947 – diretto da Edmund Goulding e interpretato da Tyrone Power – e soprattutto dal romanzo del 1946. Ora che quella mitologia, seppur arricchita di colore e infarcita di psicoanalisi, è tornata all’attenzione degli spettatori, con gli interni di lusso, il fumo, la seduzione e l’inganno, ci sembra il caso di risalire a dove tutto è cominciato. Al 1941. A Il mistero del falco di John Huston.
L’invenzione delle ombre
Nel 1929, Dashiell Hammett pubblicò un romanzo poliziesco dal titolo Il falcone maltese che fu un grande successo, tanto da vedere due trasposizioni cinematografiche in pochi anni, nel 1931 e nel 1936. Quei film però oggi sono dimenticati e se pronunciamo il titolo di quel romanzo viene in mente un solo film: Il mistero del falco, diretto nel 1941 da John Huston. Perché? Perché quel film inventò il genere noir, ovvero quel tipo di film crime, in cui l’attenzione non era rivolta alla risoluzione di un delitto, quanto alla costruzione del delitto stesso, ai criminali o a quelle figure di investigatori che incarnavano il lato violento della professione. Ma soprattutto, ed è il motivo per cui i due precedenti furono presto dimenticati, quella del noir fu un’invenzione estetica prima che narrativa e il film noir – stando alla definizione del critico francese Nino Frank – fu riconosciuto a partire dai suoi elementi visivi. Contano le figure, chiaro, i criminali, i detective, i truffatori e le donne fatali, ma lo stile conta di più: il bianco e nero, i tagli delle inquadrature debitori dell’espressionismo, il fumo delle sigarette o della nebbia, le ombre e le silhouette.
Questi elementi sono ben evidenti in Il mistero del falco che, fin dalla sua prima apparizione, diventa un archetipo: il detective privato duro ma non cattivo (Humphrey Bogart), la donna che seduce e inganna (Mary Astor), cattivi pericolosi (Sydney Greenstreet) e scagnozzi melliflui (Peter Lorre), più una pletora di caratteristi dalle facce tese, spigolose. Soprattutto però c’è un modo diverso di intendere quel tipo di racconto attraverso la messinscena: i forti contrasti della fotografia di Arthur Edeson, l’uso del cosiddetto Dutch angle, un angolo di ripresa che piega la macchina da presa facendo diventare diagonale l’orizzonte dell’immagine, le inquadrature dal basso che, come nel coevo Quarto potere di Welles servono sia a rendere titanici i personaggi sia a mostrare i soffitti degli interni opprimenti. Tutte soluzioni tecniche utili a contenere il budget che diventano anche espressive. E poi c’è uno dei segreti alla base del noir: il mistero, il non detto e il non visto.
Il falcone che non c’è
Tutto il grande fascino del genere ruota attorno a un meccanismo semplice come l’arte del racconto: nascondere l’essenziale agli occhi e alle orecchie di chi guarda o ascolta, un precetto che diventerà fondamentale per esempio nei magnifici horror RKO di Tourneur e Lewton come Il bacio della pantera che di fatto è un noir con elementi sovrannaturali. Il fuoricampo e il non detto sono due tecniche che non sono semplicemente modi di rendere più avvincente il racconto, come pure di titillare l’immaginazione del pubblico risparmiando tempo e denaro, ma diventano cardini estetici.
Per esempio, utilizzando la pratica hitchcockiana del macguffin (il pretesto della narrazione che spesso non ha un vero senso affettivo o emotivo per la storia, ne è solo il motore), il falcone che dà il titolo al romanzo e a cui tutti danno ossessivamente la caccia, arrivando ad architettare piani criminali complicatissimi – altro topos del genere, come mostrerà in modo sublime Il grande sonno di Hawks -, entra in scena solo dopo 88 minuti su 101 di durata. È un falso e nella battuta più celebre del film, Bogart lo bolla come fatto “della materia di cui sono fatti i sogni”, parafrasando Shakespeare.
Il momento però più alto di questo gioco delle allusioni di cui il noir sarà infarcito è in una breve scena, per nulla drammatica o memorabile in sé, ma probabilmente essenziale nel definire una teoria stilistica del noir.
Sono passati pochi minuti dall’inizio del film, Spade e il suo socio hanno appena accettato dalla signorina O’Shaughnessy l’incarico di pedinare un tizio che forse è coinvolto nella sparizione della di lei sorella; la sequenza comincia sul primo piano di un telefono in penombra, stagliato contro una finestra, squilla. Sempre in penombra, una mano entra nell’inquadratura, prende il telefono e risponde, dalla voce capiamo che è Spade, ma non lo vediamo perché l’inquadratura resta ferma sul comodino. Al telefono si svolge un dialogo in cui la polizia informa il detective che il suo socio è stato ammazzato, ma l’inquadratura non si muove, la luce (poca) al suo interno non cambia. Solo quando Spade riattacca e il suo volto entra nell’inquadratura, la macchina da presa si muove, un po’ indietro, verso sinistra, di modo che il detective possa accendere l’abat-jour e la luce possa vedersi nel quadro: si ferma pochi secondi a pensare e poi riprende il telefono, chiama la segretaria, la informa e le comunica come gestire la situazione. Attacca e una dissolvenza a tendina chiude la sequenza. Dura 90 secondi, ma dentro c’è probabilmente il germe cinematografico di un immaginario che, come il film di Del Toro, dura ancora oggi.
Giochi di specchi
Tornando a Nightmare Alley, il film è una riflessione su come il gesto del racconto e le narrazioni siano sempre truffe più o meno consapevoli, inganni congegnati per esercitare un dominio e come, viceversa, ogni truffa sia di fatto una storia molto ben raccontata. L’elemento, che in Del Toro si fa esplicito meta-linguaggio e gioco con la propria natura d’autore, è ben presente in modi più sfumati fin dalla genesi del noir e il film di cui stiamo parlando lo testimonia: Spade è un detective, ossia un uomo che guarda, osserva e deduce, è un uomo d’azione, come nella tradizione letteraria del giallo hardboiled, ma finisce anche per essere uno spettatore dello scontro tra la signorina O’Shaughnessy e il viscido Gutman, di assistere quasi impotente al sottile raggiro di cui anche lui rischia di finire prigioniero. La scena madre, tutta chiusa tra le mura dell’appartamento dell’investigatore, vede il protagonista passivo, costretto a guardare l’intreccio criminale svolgersi davanti ai suoi occhi come gli spettatori, con le inquadrature dal basso che paiono imitare la posizione dello spettatore al cinema.
È con questi piccoli tocchi che, come direbbe Godard, si crea la mitologia del Cinema e si riconosce anche la forza di un regista al suo primo film: la nascita del noir è anche una questione di autore, visto che Huston era ugualmente alla scrittura di Una pallottola per Roy (stesso anno, regia di Raoul Walsh), film che gli storici segnano come secondo atto di nascita del genere. E di attore, Humphrey Bogart, protagonista di entrambi i film, che nell’anno di grazia 1941 cambiò per sempre il cinema hollywoodiano, rendendolo definitivamente il regno delle ombre, dei segreti non detti e dei misteri non visti.