Quando pensiamo a film e registi che credono nel potere del cinema, un potere in grado di cambiare vite e prospettive, i primi nomi che ci vengono in mente sono quelli legati al cinema spettacolare e popolare: Spielberg, Hitchcock, Frank Capra, Michael Mann e via elencando, ognuno con i suoi prescelti.
Però ce n’è uno che lo ha reso possibile su un grande schermo reso ancora più grande senza usare mai un trucco o un effetto speciale, legandosi alla realtà fisica dell’immagine, allo spirito del documentario per mostrare la grandezza folle dell’uomo e della natura. Quel regista è Werner Herzog, il cui film più celebre, Fitzcarraldo, compie 40 anni quest’anno.
Il conquistador degli inutili
Il film potrebbe racchiudere la tagline di quasi tutto il cinema migliore del regista tedesco: un uomo sul filo della pazzia che fa di tutto per compiere un’impresa molto oltre quel filo. In questo caso quell’uomo è il Fitzcarraldo del titolo che all’alba del secolo XX, per questioni industriali e artistiche che non starò qui a spiegare troppo, deve condurre una grossa chiatta lungo il Rio delle Amazzoni e a un certo punto deve fare in modo che quella stessa chiatta scavalchi una montagna. Il suo sogno è quello di portare il tenore Enrico Caruso a cantare l’opera nel mezzo della giungla e per finanziare il sogno deve fabbricare gomma naturale di cui quelle zone sono ricche.
Fitzcarraldo è un film d’avventura allo stato puro, ovvero che illustra il concetto stesso di avventura, l’uomo alle prese con l’impossibile, che sfida ogni regola, legge e logica per il suo scopo, e per farlo non ha bisogno di grandiose sequenze d’azione o elaborati stunt: gli basta filmare la realtà, meticolosamente costruita e ricostruita, cercata senza sosta prima di poterci girare. In questo film che respira l’aria dei Conrad e degli Hemingway, e in molti altri film del regista, la produzione si sovrappone alla narrazione, il protagonista incarna una versione fittizia del suo regista che a sua volta si impelaga in un’avventura estenuante per realizzare il film.
“Il conquistador degli inutili” si sente chiamare Fitzcarraldo e La conquista dell’inutile è il titolo del libro che lo stesso Herzog ha scritto per raccontare una realizzazione che sembrava seguire le vicissitudini dello script (firmato da Herzog in solitaria, come ogni avventuriero che si rispetti). Ma a chi interessa dell’utilità quando la conquista è così assoluta?
Il motore immobile del cinema
Questo modo di vivere la natura, vederla e sentirla ma anche intervenire su di essa, cercare di farne parte come un indigeno pur non essendolo è il magnifico paradosso di Fitzcarraldo e dell’opera di Herzog (paradosso condensato nel fondamentale documentario Grizzly Man), che rende entrambi riflessioni acute e visionarie sul ruolo dell’uomo nel corso della Storia, sulla civiltà come male necessario, sul bisogno dell’assoluto anche a costo di inventarlo. Per questo, il filo su cui giocano i suoi film, che si muovono indifferenti alle distinzioni tra finzione e documentario, è il ribaltamento continuo del sentimento di realtà: per esempio, uno dei suoi migliori documentari, L’ignoto spazio profondo, è concepito, raccontato e messo in scena come un film di fantascienza.
Per questo, le sequenze più belle sembrano uscite da un documentario, l’avventura è quella realmente vissuta dalla troupe e trasfigurata nel sogno folle bramato da Klaus Kinski: l’arrivo degli Indios che salgono sulla barca e osservano la cena, il contatto tra le loro mani e quelle di Fitz, il climax drammatico con la barca alla deriva che Herzog vira nell’onirico sostituendo l’epica musica dei Popol Vuh con le note di Verdi e la meravigliosa esecuzione finale, con un’orchestra intera che in mezzo al fiume esegue I puritani di Bellini mentre i nostri “eroi” tornano a casa.
Il cuore del film però, in quanto punto di massima identità tra la messinscena e il suo dietro le quinte, è la lotta per issare la barca e farle oltrepassare la montagna: la costruzione della struttura su cui poggiarla, il lavoro fisico e meccanico per farla muovere, l’attesa, il dolore e la morte degli schiavi indios, come una piramide in miniatura. Tutta la sequenza è costruita su immagini mobili, con camera spesso a spalla (fotografia di Thomas Mauch), il montaggio certosino di Beate Mainka-Jellinghaus, il contrasto tra il silenzio della giungla, i suoni e rumori umani e la musica come a raccontare con l’udito le evoluzioni della civilizzazione. Il movimento della nave è l’apice emotivo della sequenza e qui Herzog fa tacere il cinema, inteso come movimento e manipolazione dello sguardo, e lascia parlare l’immagine: campi lunghissimi, immobili, in cui l’occhio dello spettatore coglie la fatica e la meraviglia di un movimento lentissimo, quasi impercettibile eppure poderoso. Come a dire che il segreto dell’avventura non sta nell’azione e nel movimento e che il cinema può mostrare al pubblico tutto il suo potere anche con un’immagine che appare quieta ma nella quale si agita nascosto il moto del mondo.
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