Lo schermo che si divide, mentre una giovane Sissy Spacek, coperta di sangue di maiale, usa i suoi poteri telepatici per chiudere le porte della palestra della scuola e trasformare un luminoso ballo studentesco in un inferno rosso. La macchina da presa che ruota intorno a un disperato John Travolta, che tiene tra le braccia l’amata morta, mentre sopra di lui esplodono i fuochi d’artificio. Al Pacino che legge “Il mondo è tuo” su un dirigibile e si gode la sua vasca a idromassaggio. Lo sguardo di Kevin Costner mentre Robert De Niro gli urla di essere solo chiacchiere e distintivo. Tom Cruise che ferma la caduta di una goccia di sudore mentre è sospeso in aria.
Cinque esempi, solo cinque, conosciuti da tutti, del cinema di Brian De Palma, un regista che sembra essere stato dimenticato in questi ultimi anni (l’ultimo vero grande film, seppur poco conosciuto dal grande pubblico, è Redacted del 2007) o che, forse, ormai appare fuori dal tempo.
È questo il punto focale di De Palma, il documentario di Noah Baumbach (e Jake Paltrow), presentato fuori concorso al Festival di Venezia 2015 e rimasto inedito in Italia. Almeno fino ad oggi.
Midnight Factory ha, infatti, pubblicato un cofanetto di pregio dedicato a De Palma comprendente due capolavori del regista in versione restaurata (Vestito per uccidere e Blow Out) insieme al documentario di cui vi parleremo. In aggiunta, una vera chicca per gli appassionati: la presenza di Murder a la mod, primo lungometraggio sperimentale di De Palma che già lasciava intravedere molto del suo stile.
Il documentario di Baumbach e Paltrow si dimostra un’ottima appendice ai film presenti, allo stesso tempo lungo racconto della carriera di un genio cinematografico e celebrazione nostalgica di un’arte sempre più rara.
Raccontare è l’ingrediente principale
Il documentario presenta un approccio basilare: Baumbach e Paltrow si nascondono dietro una macchina da presa statica, che inquadra Brian De Palma seduto di fronte all’obiettivo, pronto a raccontare tutta la sua storia e la sua carriera. Nel mentre, vedremo spezzoni dei film di cui si sta parlando oppure foto di scena e d’archivio. Niente di più. Un approccio quasi minimalista, che punta i riflettori sul soggetto del film e lascia che sia lui stesso a descrivere il proprio lavoro, le sue ispirazioni, i film che ama di più e le reazioni ai flop della sua carriera (che non sono mancati).
Idea semplice, forse banale, ma che si sofferma sulla forza del racconto come ingrediente principale del cinema. Si tratta, quindi, di una scelta puramente cinefila, che funziona grazie all’umiltà e al carattere di De Palma, consapevole dei suoi risultati, positivi o negativi che siano, e che evitano al documentario una dimensione agiografica.
Proprio questo senso di tradizione orale dona al documentario la prima rottura: nessun tipo di analisi approfondita, nessuno studio dietro i capolavori del regista, nessun tentativo di allontanare un pubblico di spettatori poco incline al linguaggio tecnico. Insomma, per dirla brevemente, De Palma è un documentario per tutti. La confidenza colloquiale con cui De Palma parla delle sue lotte con gli studios, dei suoi obiettivi nel realizzare certe inquadrature, delle idee che hanno formato il suo stile (debitore ai maestri del brivido ed elemento fondamentale della riuscita dei suoi film) rompe la quarta parete. Si rivolge direttamente al pubblico come fossimo seduti al tavolo di un bar, tra amici. O per usare una vecchia e abusata frase fatta, intorno al fuoco ad ascoltare la storia.
Alla ricerca di un tempo perduto
Il secondo elemento che via via si fa sempre più pressante all’interno del documentario è uno sguardo nostalgico verso un cinema che è stato e che oggi è quasi scomparso. Un cinema formato da artigiani, dove si poteva sperimentare e ci si poteva permettere di rischiare. Proprio quel rischio era la scintilla che sprigionava fiammate di creatività e che registi del calibro di De Palma riuscivano a sfruttare a dovere per emergere. Ripercorrere i film più celebri di De Palma (Due sorelle, Carrie, Gli intoccabili, Vestito per uccidere, Scarface, giusto per dirne alcuni) significa ricordarsi di quanto anche la storia più semplice e banale possa diventare indimenticabile grazie alle immagini. Lo abbiamo detto spesso su queste pagine (l’ultima parlando della serie di Obi-Wan Kenobi) che il come si racconta, al cinema, ha molta più importanza rispetto al cosa.
Il rovescio della medaglia di questo approccio così cinefilo è, paradossalmente, proprio il passare del tempo. Per De Palma l’apice della carriera di ogni regista è tra i 30 e i 50 anni: è in quel lasso di tempo che si realizzano i film di cui tutti parleranno e si ricorderanno (salvo casi eccezionali). Poi si invecchia, fisicamente e mentalmente, l’industria cambia e ti accompagna lentamente alla porta d’uscita. Permane, all’interno del documentario, un forte senso di nostalgia per un cinema reso grande da persone che oggi, nel 2022, sembrano essere stati messi all’angolo o si sono ritirati. La celebre fotografia che mostra insieme De Palma, Spielberg, Coppola, Lucas e Scorsese porta con sé la rappresentazione di un momento aureo ormai perduto. De Palma, Coppola e Lucas si sono praticamente ritirati, mentre Scorsese da un paio d’anni è relegato alle piattaforme streaming. L’unico che è riuscito a entrare e rimanere nel meccanismo industriale hollywoodiano è Steven Spielberg, che con West Side Story si è però scontrato con la scarsa affluenza di pubblico.
È un tempo che sta per finire oppure è già finito, quello del cinema in cui la mano del regista crea il film?
Questa è la domanda che il documentario, concentrato su un solo regista, sembra voler chiedere agli spettatori contemporanei, in qualche modo colpevoli di aver accettato piatti pronti e industriali, dove le pre-visualizzazioni delle scene d’azione, che seguono uno standard predefinito, hanno vinto sulla creatività della singola personalità.
Il documentario celebra il cinema, nel senso più puro del termine. Perché De Palma è solo uno dei tanti che dello stile faceva contenuto. E chissà che, guardando pochi e brevi spezzoni di film appartenenti al passato, ascoltando un regista semplice consapevole di essere giunto al capolinea, anche lo spettatore possa ricordarsi cosa rende il cinema così affascinante e piacevole. Non parliamo del cinema d’autore, ma di quello popolare.
Se Hollywood deve intrattenerci, che lo faccia con stile.
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