Il mondo dell’intrattenimento vive da sempre di suggestioni, di collegamenti con altre opere e di trasformazioni continue. Specialmente negli ultimi anni, è un dato di fatto che gran parte delle produzioni cinematografiche e seriali non sono totalmente originali, ma si appoggiano in alcuni casi a del materiale già pronto, facendo un passaggio da un medium all’altro; in altri, invece, riproponendo saghe e franchise storici con reboot, sequel o revival. Mentre l’industria dei sogni si sta trasformando sempre di più nell’industria della nostalgia, è opportuno ragionare sul senso profondo dell’operazione nota come adattamento o trasposizione, che consiste nella creazione di un prodotto basandosi su un’opera già esistente e quindi rientra di fatto nella prima formula che abbiamo menzionato qui sopra. Se ad un primo sguardo tale processo sembra appartenere a company e autori che ricercano guadagni facili senza un minimo di sforzo creativo, in realtà costruire e sviluppare passaggi tra diversi fonti (la più classica operazione prevede la trasformazione di un libro in un film) non è per nulla semplice.
Questo falso mito della facilità e dell’immediatezza deriva forse dal fatto che davvero tanti utenti credono fermamente che adattare e trasporre un romanzo, un videogioco, un lungometraggio o una serie in qualcos’altro sia un semplice procedimento meccanico volto alla ideazione di una copia perfetta del medium originale. In realtà, per quanto è indubbio che in questi casi sia necessario mantenere il più possibile fedele lo spirito dell’opera di partenza senza tradirlo, è pur vero che stiamo parlando, nel caso di adattamenti e trasposizioni, di passaggi tra prodotti diversi che hanno regole ed esigenze molto differenti gli uni dagli altri. Ricercare quindi elementi perfettamente uguali all’opera primaria in un prodotto trasposto può essere deleterio, rischiando tra l’altro di rovinare l’esperienza, perché può decentrare i problemi e i difetti di quel determinato titolo associandoli a qualcosa di esterno (come accaduto con la recente serie Netflix su Resident Evil). Come si può quindi vincere l’ossessione per l’adattamento perfetto? Forse la chiave è fare alcuni esempi per comprendere meglio il processo che c’è alla base e il risultato finale.
Il Signore degli Anelli: Peter Jackson ha fatto un lavoro filologicamente accurato?
Il Signore degli Anelli, nota trilogia cinematografica realizzata da Peter Jackson che ha vinto la bellezza di 17 Oscar su 30 candidature totali, viene generalmente presa d’esempio, nel mondo dell’intrattenimento, come uno dei migliori adattamenti della storia del cinema, ma questo gigantesco progetto è veramente in linea con il pensiero di J.R.R. Tolkien o l’incredibile successo che ha ottenuto va al di là della fedeltà al romanzo fantasy di partenza? Si può dire, in generale, che il filmmaker neozelandese avesse bene in mente il lavoro del leggendario filologo e professore inglese e, proprio perché conosceva molto bene il libro, sapeva che realizzarne una copia precisa e puntuale sul grande schermo sarebbe stato impossibile. La prima difficoltà effettiva nella trasposizione delle pagine di Tolkien è da riscontrare nella sua proverbiale vena descrittiva, che comincia fin dalle prime battute del romanzo.
Riprodurla al cinema sarebbe stata un’impresa del tutto ardua perché intere porzioni del libro, proprio in virtù di questa esigenza narrativa minuziosa e perfetta, appartengono più al reame delle storie su cellulosa piuttosto che ad una pellicola. La soluzione adottata nei film è semplice ed efficace: la qualità descrittiva di Tolkien viene riposta nella costruzione delle ambientazioni e dei personaggi, mentre gli eventi narrati hanno una marchio più dinamico ed epico che rende il ritmo della storia più rapido e meno compassato. Un’altra grande difficoltà, che Jackson è riuscito agilmente a superare, è da individuare nel vasto numero di personaggi presenti nel libro che sono stati portati alla luce con cognizione di causa, con un’attenzione particolare verso i grandi protagonisti di quest’avventura e con alcune figure secondarie che invece sono finite, purtroppo, nel dimenticatoio. Possiamo quindi notare che la tripletta filmica su Il Signore degli Anelli non è priva di differenze o mancanze, anzi, ma il risultato finale è stupefacente perché non ha per nulla banalizzato o interpretato sommariamente il romanzo fantasy.
The Boys: quando la trasposizione supera il materiale di partenza
Un altro caso studio da trattare, sia perché molto recente sia perché interessante nella sua costruzione, è The Boys, la nuova serie Prime Video ideata da Eric Kripke ispirata all’omonimo fumetto di Garth Ennis e Darick Robertson. L’opera, che ha debuttato sulla piattaforma streaming sopracitata nel 2019 con una terza stagione distribuita da pochissimo tempo, condivide ben poco con il materiale fumettistico di partenza e lo reinterpreta in chiave matura ed entusiasmante. Trasporre la fonte originale e trasformarla in un altro medium è stata una grande sfida fin da subito: il prodotto DC/Dynamite Entertainment è veramente ostico dal punto di vista contenutistico perché è realmente estremo con una visione della violenza e della sessualità fin troppo marcata. Tale caratteristica ha reso il titolo uno degli esempi più fulgidi e originali nella decostruzione dell’universo e linguaggio supereroistico, rappresentando un unicum particolare con delle coordinate difficilmente traducibili al di fuori del contesto fumettistico.
Detto questo, Kripke non solo è riuscito a catturare perfettamente lo spirito critico e cinico del materiale di partenza, ma ha lavorato molto bene anche sul contenuto, riuscendo nel complesso compito di fare uso di un linguaggio narrativo e registico di impatto senza andare troppo oltre come fatto dal fumetto. L’elemento che però rende il prodotto del piccolo schermo per certi versi superiore all’originale sono le tematiche narrate: se nel fumetto la critica nei confronti dei supereroi è spesso fin troppo fine a sé stessa senza nessuna particolare motivazione dietro, la serie riesce al contrario a riflettere su tanti argomenti d’attualità, criticandoli pesantemente e inserendoli in modo magistrale all’interno della storia. Questo è il caso in cui, nonostante il fumetto di The Boys e lo show televisivo siano due universi diversi, ma comunque comunicanti, tale particolare direzione è un punto di forza e non di debolezza. La realizzazione di Kripke va ad ampliare e migliorare il lavoro di Ennis e Robertson, dando la possibilità al pubblico di recuperare entrambi i prodotti e imparare qualcosa da tutti e due.
La Torre Nera: cronaca di un adattamento disastroso
La Torre Nera è una delle saghe recenti più famose ed iconiche della lettura: gli otto romanzi che costituiscono questo intricato universo, che mischiano il fantasy all’horror, la fantascienza al western, sono la bandiera rappresentativa del talento di Stephen King, che con questa epopea ha trovato il modo migliore per raccontare la sua poetica. Tutto comincia con un pistolero solitario alla ricerca spasmodica di una misteriosa torre, che si trova ai confini dell’universo conosciuto. Il suo principale ostacolo? Un potente stregone noto come L’Uomo in Nero che vuole il collasso e la distruzione di tutti i mondi conosciuti. Una storia affascinante che, dopo essere stata adattata in formato fumettistico, ha provato il lancio sul grande schermo nel 2017 con la regia di Nikolaj Arcel, per la prima volta coinvolto in un progetto mainstream. Il risultato, purtroppo, ha deluso ampiamente le aspettative del pubblico e della critica, che all’inizio si erano lasciati ingannare dalla presenza di due grandi nomi hollywoodiani ovvero Idris Elba e Matthew McConaughey, rispettivamente nei panni del pistolero Roland di Gilead e della sua terrificante nemesi.
La Torre Nera è forse l’esempio migliore di un adattamento sbagliato su tutti i fronti: il problema più evidente è da riscontrare nel fine progettuale iniziale. L’idea di fondo era infatti quella di creare un film che in qualche modo fosse una sorta di riassunto di tutta la saga di King, portando elementi da tutti i romanzi della serie e non da un libro in particolare. Purtroppo, non essendoci una storia forte e ben centrata che si fondava sul materiale originale di partenza, il risultato è un racconto confusionario e senza mordente che va completamente alla deriva. Se poi aggiungiamo a questo una caratterizzazione dei personaggi misera e superficiale, nonostante il coinvolgimento delle star sopracitate ed uno studio distratto dei punti cardine e della filosofia dell’opera dello scrittore americano, non è difficile capire come mai la pellicola è stata un disastro anche dal punto di vista degli incassi. Un flop tale che ha precluso anche la possibilità di ampliare questo universo con una serie televisiva prodotta da Amazon. Lo show avrebbe forse risollevato le sorti del progetto perché ispirato, nello specifico, a La sfera del buio, quarto romanzo della saga.
Qual è quindi il segreto di una trasposizione efficace?
Dopo queste tre analisi può venire effettivamente spontaneo porsi una domanda: ma quindi c’è un segreto per una trasposizione efficace o dipende tutto dal contesto? In realtà è tutto molto variabile: innanzitutto bisogna comprendere i fini ideologici dietro l’adattamento e poi capire che tipo di operazione è stata eseguita, se vicina al materiale originale o volutamente diversa in modo da differenziarsi con la fonte primaria e con lo scopo di attualizzare il medium di partenza. L’unico elemento comune tra tutte le trasposizioni dovrebbe essere, necessariamente, uno studio completo e approfondito del prodotto base che viene trasformato perché la superficialità è forse la più grande nemica di questo processo cinematografico e seriale. Al contrario, informarsi e analizzare per bene l’opera da sviluppare dà la possibilità alla produzione, agli sceneggiatori e agli autori di padroneggiare la materia contenutistica e narrativa e al tempo stesso di rispettare il lavoro altrui senza alterarlo eccessivamente.