Sono due le immagini più potenti del cinema di Ari Aster. Con soli due film all’attivo, in preparazione il terzo Disappointment Blvd con un attesissimo Joaquin Phoenix in versione commedia nera da tre ore, l’autore, che insieme ai colleghi Jordan Peele, David Robert Mitchell e Robert Eggers ha dato il via alla cinematografia horror d’autore contemporanea, ha saputo immediatamente mettere il proprio marchio sulle sue opere e, soprattutto, sui suoi finali.
Sono infatti i sorrisi di Alex Wolff e di Florence Pugh a porsi a compimento delle sue due pellicole Hereditary e Midsommar – Il villaggio dei dannati, speculari nella delineazione di un arco narrativo che hanno percorso i suoi personaggi principali e che si consuma definitivamente con l’accettazione e l’abbraccio del male.
Segreti di famiglia
Un male consapevole, in linea con l’ordine delle cose, che va immettendosi in un quadro generale che Ari Aster ha tracciato nel corso dei suoi film e che compie un medesimo percorso in entrambi, conducendo i personaggi ad un similare epilogo. Se è innanzitutto l’individualità dei protagonisti a spingerli verso l’accoglimento della brutalità e del terrore, dovendo perciò analizzarne i singoli cammini intrapresi per comprenderne appieno i risvolti, nei film di Aster è altresì il contesto a fare da tappeto su cui partire per poi librarsi e incoronare i propri sogni violenti.
In Hereditary è la condizione di un dolore inestinguibile e di un disagio familiare che traccia le conseguenze delle azioni di ogni appartenente al clan dei Graham. Non c’è comunicazione tra genitori e figli. Ci sono lutti e funerali e riproduzioni in miniatura di un ensemble familiare che è parte di un circolo di perversione e misticismo più grande.
Quello a cui apparteneva la madre del personaggio di Toni Collette, quindi la nonna degli adolescenti Alex Wolff e Milly Shapiro: una setta che osserva silente nell’attesa dell’arrivo di un nuovo re del male che sappia guidarli e indirizzarli, portando alla luce i segreti di una famiglia di cui la maggior parte dei membri era all’oscuro e di cui diventeranno infine i punti di riferimento.
La particolarità di Hereditary e della strada del personaggio interpretato da Alex Wolff è che, in realtà, non è affatto il giovane a sorriderci sul finale del film. Questo perché non è la sua storia, non è la sua ascesa. Lui è solo un mezzo che si fa tramite per il destino funesto della sorella Charlie interpretata da Shapiro. La stessa che Peter (Wolff) ha orribilmente e per sbaglio ucciso, correndo troppo forte in quella macchina che, sfrecciando sull’autostrada, ha contribuito all’impatto della testa della ragazzina contro uno dei pali.
La corporalità in Hereditary
In verità, nella tragicità dell’accadimento più percettivo fisicamente di Hereditary, c’è una prima liberazione del personaggio di Charlie e il l’ingresso a quello che sarà un mondo metafisico che andrà poi concretizzandosi prendendo possesso del corpo del fratello maggiore. Se già nel corso della pellicola la ragazzina aveva dimostrato una tendenza al macabro e allo scabroso, nel suo essere una sorta di prescelta come intuito dai racconti della madre e dall’attenzione che le aveva da sempre riservato quella stralunata e stramba nonna, staccandosi dal suo corpo materiale il personaggio ha potuto assumere la forma che più si adattava al proprio status.
Quella di un contenitore maschile, di un corpo che si confacesse di più alla reincarnazione di Paimon, uno dei re dell’Inferno. Quel luccichio che sia Charlie che Peter avevano visto nel corso dell’opera e che aleggiava attendendo soltanto di trovare un’anima affine e un involucro ospite.
In quella casetta sull’albero, quella in cui Charlie giocava da bambina, va compiendosi in chiusura di Hereditary un rito che rimette a posto gli “sbagli” avvenuti in precedenza (Charlie nata in un corpo femminile, lei che doveva guidare i suoi fedeli sudditi dediti al diavolo). L’incoronazione di Peter/Charlie avviene con tanto di vestizione e ufficializzazione del nuovo ruolo che lo spirito della ragazzina nel corpo del fratello andrà a ricoprire.
Un riequilibrio che era stato intaccato ed è andato riassestandosi coprendo il capo del personaggio con tanto di corona. Un’investitura che viene accolta da Charlie, sentendosi finalmente al suo posto. Nel corpo giusto, con il ruolo giusto.
Un viaggio per trovare se stessi
Ed è proprio da un’investitura che parte la via per il ribaltamento del carattere e della posizione di Dani (Florence Pugh) in Midsommar, che dal diventare Regina di Maggio riuscirà ad uscire da una situazione di assoggettamento nei conforti del fidanzato Christian, che non riserva alcuna premura nei confronti della ragazza.
Un comportamento disdicevole quello di un giovane incapace di strappare il cordone di un rapporto che non riesce più a crescere e che vedrà la protagonista seguirlo nell’esplorazione di un paese e di una cultura sconosciute, in cui si troverà molto più a suo agio di quanto le fosse mai capitato in precedenza. In fondo, fino a quel momento, l’esistenza di Dani era stata punteggiata solo da drammi o da relazioni anaffettive, dal bipolarismo della sorella che ha ucciso se stessa e i genitori alla superficialità del rapporto con Christian privo di cure e di attenzioni.
Non è perciò un caso che il cuore centrale di Midsommar indaghi il sentimento di appartenenza che i cittadini svedesi provano per la propria terra e come Dani riesca incredibilmente a sentirsene quasi affine. Come il ciclo della vita, seppur crudele in certi casi, faccia solo parte di un organismo in cui ogni abitante contribuisce a vivere secondo la propria parte, agendo in funzione e secondo le necessità della comunità. Come ognuna delle persone di quel minuscolo e isolato villaggio riesca realmente a sentire i bisogni, i dolori o le sensazioni dell’altro.
Un unico corpo, un’unica mente, una sola anima che diventa un meraviglioso momento di cinema quando Dani in uno scoppio di lacrime vede tutte le sue nuove “sorelle” piangere e urlare insieme a lei, mentre in un altro capanno il rito della sessualità viene condiviso unitariamente da un pubblico di osservatori che incita, spinge e vive l’amplesso tanto quanto le uniche due persone attivamente coinvolte.
Un sorriso alla camera
In questo clima di unitarietà, nonostante risulti comunque respingente e preoccupante per lo spettatore, Dani riesce a trovare un proprio benessere che culminerà proprio con la vittoria del ruolo di Regina di Maggio e tutte le implicazioni che questo incarico le riserverà. Anche qui, come in Hereditary, abbiamo la vestizione. Anche Dani indossa un copricapo, un abito, un ornamento che possa contraddistinguerla come sovrana (seppur momentanea) della stagione, sentendosi parte della gente che ha attorno e vedendo nei loro occhi una certa fratellanza.
Forte del sostegno ricevuto, infusa del potere di quella nuova posizione ai vertici mai in precedenza ricevuta, per Dani osservare bruciare il capannone con i corpi dei suoi amici e del suo ormai ex fidanzato non è altro se non l’essere diventato tessuto integrante del villaggio svedese. È aver avuto l’occasione di legiferare, e averlo fatto sentendosi parte di un tutto, quello che è mancato con il suicidio/omicidio della sorella e della sua famiglia e che è andato definitivamente sgretolandosi con il comportamento del fidanzato.
Sul finale di Midsommar è il sorrisetto di Dani quello che rimane impresso e che fa ragionare nella stessa maniera dell’espressione consapevole di Peter/Charlie in conclusione di Hereditary. È un arco portato a compimento e che vede nei protagonisti di Ari Aster il raggiungimento di un luogo di cui sentirsi finalmente parte, che sia questo un corpo o una comunità. È l’approvare il desiderio di stare bene con se stessi pur quando l’ambiente circostante è costellato di rituali satanici o di programmate morti. È sapere che quello è il posto a cui si appartiene, traendone un’infinita soddisfazione.
Nella scomodità della fisicità di Hereditary, nello scombussolamento emotivo di Midsommar, i personaggi principali finiscono entrambi per essere guardati fissi dalla camera da presa per riportarne le micro-espressività. Accenni invisibili che si fanno mano a mano più evidenti e che tramutano la rigidità (o il broncio) dei volti in sorrisi o sguardi soddisfatti. Compiaciuti, complici. Anche velati da un leggero sadismo. Ma più di ogni altra cosa consci del proprio essere e di poterlo finalmente lasciar esprimere nel mondo.