Sabato pomeriggio. Sopra Roma il cielo è di un limpido azzurro, c’è il sole che rischiara gli angoli di ogni vicolo e il freddo è pungente il giusto per una giornata di inizio febbraio. Quartiere Centocelle, uno di quelli storici della capitale, da sempre legato alla cultura operaia e popolare. Un noto cinema di zona, storico multisala barcamenatosi nel corso dei decenni, propone in cartellone Titanic. Lo proiettano nella versione nuova di zecca in risoluzione 4K digitale 3D, riedizione offerta alle sale in occasione del venticinquesimo anniversario dell’uscita dell’opera di James Cameron.
Sempre lui, James Cameron.
In molti cinema (non in questo qui, che già si prepara a far spazio ad Ant-Man and the Wasp: Quantumania) in programmazione c’è ancora il suo ultimo film, Avatar: La via dell’acqua. Entrambi sono nella classifica dei dieci maggiori incassi settimanali in Italia; Titanic si è avvicinato subito al milione di euro, il secondo capitolo della saga ambientata su Pandora veleggia verso i quarantacinque totali. Entrambi sono nella top cinque dei maggiori incassi della storia del cinema e, attualmente, gareggiano per capire chi occuperà il terzo e quarto posto.
Prezzo del biglietto, dodici euro. Pop-corn finite da una famiglia con bambini, occhialini 3D sanificati e pescati all’interno di un grande bustone azzurro. La sala è la 3, la più grande della struttura. Fa un po’ freddo, i giacconi rimangono su. I riscaldamenti sembrano azionarsi per qualche istante ma poi mollano la presa; risparmio energetico, a ognuno tocca fare la sua parte, anche a fronte dei dodici euro. Il cinema non appartiene a nessuna grande catena di multiplex e risponde a regole tutte sue, non c’è nemmeno la pubblicità.
Alle 16.00 in punto il proiettore si accende e fa partire il film. Il tempo di scorgere per bene le nuche di chi è accomodato sulle poltrone è poco. La sala è troppo grande per essere riempita all’orario di quello spettacolo, ma c’è un po’ di tutto: una famiglia con bambino chiacchierone ma genuinamente interessato – non è quella di prima dei pop-corn, diretta invece verso i Me contro Te -, un trio di trentenni alquanto emozionati, più in là, quasi sotto schermo, due ragazze adolescenti con smartphone e stories incorporati.
Rimontare il fotogramma
Quando cala il buio degli abissi in cui il film di Cameron ricaccia tutti quanti, qualcuno sta ancora cambiando posto, per cercare la giusta posizione, il giusto angolo di visione. Per alcuni è una scelta rituale, per altri questione di comodità. Tre ore e un quarto sono molte e il 3D (non HFR, la versione a 48 fotogrammi per secondo che solo alcuni cinema d’elitè propongono) richiede un certo sforzo per l’occhio, un allenamento sulla messa a fuoco dell’immagine, una sorta di predisposizione al montaggio interno dell’inquadratura. Il 3D insegna a comprendere il valore del primo piano e dello sfondo, ma bisogna saperlo assecondare e sperare nella sua adeguatezza tecnica.
Certo è che per molti in questa sala si tratta della prima esperienza di visione in 3D. Per quasi tutti è la prima occasione utile per vedere Titanic sul grande schermo. Per qualcuno è anche la prima volta in assoluto davanti all’opera eterna di James Cameron. O meglio, la prima volta di fronte all’oggetto originale, al flusso narrativo, consequenziale di immagini che assumono senso nell’intreccio che le mette in relazione e che le fa scorrere su questa grande tela bianca che sovrasta tutto e tutti. Scorporate dalla loro esistenza in movimento, è forse impossibile non averne mai incrociato il cammino.
L’immagine e il suo racconto
Impossibile non aver mai assorbito l’immagine di Jack, un giovanissimo Leonardo DiCaprio, che tiene larghe le braccia di Rose, una giovanissima Kate Winslet, sulla prua di questa immensa nave. Impossibile non aver speculato sull’inevitabilità dell’esito che li attende su quella porta galleggiante nel finale del film. Impossibile non avere impresse nel subconscio celebri citazioni che si sono fatte spazio, ripensate e rifunzionalizzate, nell’andirivieni quotidiano di informazioni, battute, meme («Signori, è stato un onore suonare con voi stasera»). Impossibile non avere archiviato da qualche parte nella scatola cranica il calco delle note che compongono il motivo principale del film, magari solidificato a partire da un passato di scuole elementari che ne hanno fatto oggetto di studio durante le bistrattate ore di educazione musicale, di dita tremolanti su flauti mordicchiati.
Anche per chi non lo ha mai visto, Titanic è probabilmente sempre esistito. Eppure è in questo luogo deputato, il cinema, che si privilegia la raccolta del senso e delle sensazioni, che anche, e forse soprattutto, a distanza di venticinque anni questa disgregazione di significato torna a ricongiungersi sulla via maestra. Si tratta del luogo dove il ricordo, l’immagine statica e frammentaria si aziona e mette in moto, si disvela come origine e non come punto d’arrivo. Concediamoci il banale: l’immagine prende vita, ma per davvero, nella stessa maniera in cui si colora la memoria di un’anziana Rose che di fronte agli inanimati fotogrammi del relitto del Titanic racconta una storia, infonde di verità (parziale, relativa, incerta, come la verità lo è sempre) l’immagine di quella stanza, di quel corridoio, di quel ritratto.
Cinema popolare
Si può argomentare che nell’era del digitale e della fruizione casalinga non è necessario l’ingresso al cinema per infiammare questo processo. Non vi è dubbio che sia vero. Eppure ecco lo scacco: solo l’adunata del grande cinema popolare, del grande evento offerto come esperienza unica e condivisibile, è capace di racchiudere in sé il futuro della sala cinematografica. James Cameron lo ha capito da tantissimo tempo e per questo trascina ancora oggi, a più di due decenni di distanza, moltissime persone dentro un’enorme stanza al buio.
Da una parte concilia un insaziabile desiderio di superamento della soglia tecnologica all’opportunità di poterne godere, in quel modo, con quel grandeur, solo lì, solo in quel momento. Dopo così tanti anni Titanic è ancora un prodigio della tecnica: il lavoro sulle scenografie, sul riempimento concreto dello sfondo, sul sincronismo di moto e ritmo lascia a bocca aperta. Dall’altra non dimentica mai che questa tecnica è pensata in funzione dell’umano, è subordinata a chi deve fruirne, deve essere finalizzata a parlare del senso comune, dei suoi drammi, delle sue aspirazioni, delle sue sconfitte. Non è mai, e non deve essere, un dispositivo compiaciuto.
Celebrare il senso comune
In tutto questo c’è la formula inossidabile di Titanic. Una mescola di strati emotivi che prende un evento inciso a fuoco nell’immaginario collettivo e divenuto quasi una leggenda, quindi fatto di persone che sono tanto vere quanto archetipi, tanto singolari quanto universali, forgiati in un’opera che unisce il mastodontico del dramma al calore del romanticismo, attraversando il coraggio dell’avventura e le meschinità da thriller. E chi lo vede adesso come allora si esalta con il compagno di bracciolo, ammutolisce dopo aver scattato una foto con flash allo schermo da condividere sui social, viene annichilito dai singhiozzi e dal gelido abisso in cui la nave inaffondabile si inabissa per l’eternità.
Allora non sorprende, ma rinfranca, che di un bel sabato pomeriggio che ormai volge a sera individui così differenti abbiano scelto di rinunciare a una pizza e accomodarsi in una sala un po’ fredda e un po’ vuota di un quartiere che si arrabatta tra le cose di tutti i giorni e ogni tanto sale in favore di cronaca.
Non sorprende che il cinema sia una scelta sa pensare l’ordinario attraverso il filtro dello straordinario. Rimane chiaro il suo destino: sopravvivere alla dispersione del senso e riscoprirsi non tempio ma agorà, luogo di una comunità che celebra la cosa pubblica nei giorni di festa. Anche venticinque anni dopo, per la prima volta, quando tutti i pezzi si uniscono a raccontare una grande storia.