Nelle scorse settimane è stato diffuso un video con Steven Spielberg e Tom Cruise durante il consueto pranzo della Academy, evento al quale sono invitati tutti i candidati di ogni categoria ai premi Oscar. I due si stringono la mano, si abbracciano, si sussurrano qualcosa all’orecchio e si danno un paio di pacche sulle spalle. Poi Spielberg dice a Cruise di aver «salvato il culo a Hollywood», aggiungendo un istante dopo «e potresti aver salvato l’intera distribuzione in sala».
I due stanno ovviamente facendo riferimento a Top Gun: Maverick, il sequel di un cult assoluto degli anni Ottanta arrivato al cinema a trentasei anni di distanza e tra lo scetticismo dei più. Era infatti previsto che il film uscisse al cinema nel 2019, ma la necessità di girare alcune riprese aggiuntive e poi l’arrivo della pandemia ne hanno fatto slittare il rilascio fino al 2022, dopo una serie di rimandi e di mutamento cronico del sistema distributivo che di certo non facevano ben sperare anche i più ottimisti analisti.
Infatti durante i due anni della pandemia molte distribuzioni hollywoodiane si sono dovute arrendere alle lusinghe dello streaming nella speranza di tamponare le perdite e salvare il salvabile durante una situazione così anomala. Anche la Paramount, casa di produzione e distribuzione di Top Gun: Maverick, ha dovuto resistere a questo arrembaggio, proprio su insistenza di un Cruise che nelle vesti anche di produttore attualmente gode di un forte controllo creativo e gestionale dei progetti ai quali collabora. Top Gun: Maverick esce nel maggio del 2022 e arriva nell’entusiasmo e nella sorpresa collettiva quasi al miliardo e mezzo di incasso globale.
Top Gun: Maverick ha salvato la sala cinematografica?
Quello di Top Gun: Maverick è stato un importante successo per l’industria cinematografica hollywoodiana per un paio di ragioni. Non solo è un film che ha saputo scrollarsi di dosso la nomea di prodotto invecchiato male nel corso dei quasi quattro anni di stallo (grazie anche, e forse soprattutto, all’ottimo responso della critica e al positivo passaparola nel pubblico), ma è anche la prima opera audiovisiva che in tempi recenti è stata capace di sfondare il muro di un box office miliardario pur non appartenendo all’egemonia cinecomic Marvel/DC e senza far parte di un franchise. Si tratta di un sequel, ma sotto questa prospettiva non sussiste il paragone.
Cosa ancora più importante, vero punto di rottura nell’epoca post-pandemica, è la convinzione effettiva e percepita della maniera in cui Top Gun: Maverick abbia ristabilito l’asse dell’attrattiva della sala cinematografica. È un’opera che ha detto chiaro e tondo che la sala gioca ancora un ruolo in una partita che pareva rapidamente destinata ad essere chiusa. Ancora per quanto, chi può dirlo. Ma assume la forma e la valenza dell’atto di una simbolica resistenza e come tale è stato celebrato. Non è quindi certo un caso che dal pranzo della Academy arrivi un video trafugato in cui è proprio Steven Spielberg, alfiere della Hollywood del Dolby Theatre, a rimarcare l’importanza di questo successo.
Il mito fondativo di The Fabelmans
Steven Spielberg, leggendario regista e produttore, colui che al momento è anche tra i più quotati in vista della prossima cerimonia degli Oscar con un film, The Fabelmans, che alla sala fa ricondurre il momento fondativo di una carriera e di un’esistenza tutta. L’opera ha le forme dell’autobiografia e nelle prime battute si apre lì, tra le poltrone di un cinema mentre un fascio di luce irradia lo schermo e mette le immagini in movimento. Il piccolo Sammy/Steven guarda un treno schiantarsi (il film proiettato è Il più grande spettacolo del mondo di Cecil B. DeMille) e ne rimane folgorato, affascinato, turbato.
Spielberg, che è tra le menti più sopraffine per quella che è la capacità di intercettare gusto del pubblico e oggetto di consumo, mescola in maniera sagace la celebrazione del cinema (che fu) al racconto per la prima volta personale in maniera manifesta. Il suo è un film che discute il senso rivelatorio, mistificatore e anche fantastico del cinema, ma lo subordina all’intimo vissuto e lo intreccia quindi alla sua persona, al diario di vita. Quello che The Fabelmans da un certo punto di vista fa, in modo meno spudorato e, appunto, più intelligente, è anche l’inserirsi in una scia auto-riflessiva, se non apertamente auto-celebrativa, che nell’ultimo paio d’anni ha travolto una Hollywood in crisi d’identità e che si rifugia nel mausoleo del passato.
Per chi tutto è finito: Empire of Light e Belfast
In questi giorni è in sala Empire of Light di Sam Mendes, che lo scrive e dirige. Una storia d’amore e di vita che ruota attorno a un lussuoso cinema sulla grigia costa inglese, un luogo già scisso tra il mondo dei vivi (le sale aperte al piano terra) e quello dei morti (un’intera ala dell’edificio chiusa e polverosa). È il 1980, c’è qualche moto sociale sullo sfondo tra Tatcher e skinheads. In ordine di tempo questo di Mendes è l’ultimo film che si ascrive al modello di opere che tirano indietro le lancette dell’orologio e cercano di trovare la via di una discussione sul cinema passando per la nostalgia della fruizione in sala. Due elementi non possono mancare: l’accomodarsi su una poltrona e il raggio del proiettore che squarcia il buio, con la conseguente espressione di stupore (la Spielberg face…) o lacrima che solca il viso.
Ma Mendes non è Spielberg e ne esce fuori tutto il goffo di un momento catartico per la protagonista di Olivia Colman che in sala in quel momento è da sola, per una insolita proiezione privata, quasi a dirci che sì, è tutto finito, è stato bello ma adesso bisogna chiudere il sipario.
Per rimanere nel Regno Unito, andiamo su Belfast di Kenneth Branagh. La prima cosa che cala è un bianco e nero fin troppo consolatorio (Oscar alla Miglior sceneggiatura originale a Branagh nel 2022) sulla panoramica della città che dà il titolo al film, poi le tensioni nordirlandesi sul finire degli anni Sessanta filtrate attraverso lo sguardo pulito del piccolo Buddy.
Tra le tante sequenze che compongono il collage di un film pensato a uso e consumo di un ricordo del passato senza eccessivo turbamento, arriva anche il momento sala: Buddy seduto in poltrona, il fascio di luce che affetta l’oscurità, lo stupore del bambino e l’eccitazione collettiva del pubblico. Anche qua si tratta di una foto ormai sbiadita, in bianco e nero appunto. Da lì a poco il conflitto innalzerà barricate e farà vittime, Buddy e i suoi genitori partono e vanno via. Anche qua è tutto finito.
Un mondo di spettri? Babylon
C’è poi Babylon, il chiacchieratissimo ultimo film del già acclamato Damien Chazelle, che non prende scorciatoie e non imbraccia metafore, ma tira dritto a dire le sue cose nella maniera più manifesta possibile. Hollywood dei ruggenti anni Venti, estro, esagerazione e droga nell’esaltazione di un’industria giovane ma già all’apice dei suoi vizi e delle sue virtù. Il cinema era meglio a quei tempi, lo dice lo stesso Chazelle nelle conferenze stampa, «quello che è andato perduto di quella Hollywood è la libertà», mentre gli schermi si popolano di spettri – i divi di Brad Bitt e Margot Robbie – e sulla terra rimangono i demoni – Tobey Maguire.
Ecco che allora torna la sala come l’unico punto di raccordo, quando il galoppino Manny rimette piede decenni dopo in una Hollywood cambiata per sempre, si siede tra il pubblico mentre dal proiettore esce fuori Cantando sotto la pioggia. Manny si emoziona, si lascia andare al pianto mentre seguono una serie di fotogrammi “impossibili” da film che coprono un intero secolo di cinema, dagli spettri del cinema muto a quelli del digitale. Qualcosa è stato e non sarà più.
Pensare la sala nel futuro
E se anche il film di Chazelle con questo impulso finale danza sul confine tra speranza e requiem, pare comunque ammantarsi di quel mantello nero che lo accomuna alle opere di cui sopra che sono in marcia per il rito funebre. Sta qui una contraddizione che detta una tendenza dei tempi. Raccolti nel tempio di Hollywood, questi film che volgono indietro lo sguardo scelgono il consolatorio pur di ignorare e rimandare l’inevitabile cambiamento già in atto. Insomma, si stringono nelle spalle e tengono già in mano una rosa da poggiare sulla bara della defunta sala che in questo modo sono le prime a pensare decadente, vuota, inadatta al futuro e oramai dominio del ricordo.
Appare quindi schizofrenico l’atteggiamento di una resistenza troppo spesso fatta a parole (quando l’industria si congratula con Cruise) e troppo poco spesso ragionata attraverso un cinema che rifletta sul valore dell’aggregazione cinematografica, sulla capacità di immaginare la sala cinematografica come un luogo reale da qui a venti, trenta, quarant’anni, capace di coesistere con il flusso di immagini dello streaming, di porsi come retta parallela e non incidente.
Non è quindi più tempo di alimentare la narrazione tragica della sala cinematografica come istituzione nobile e morente e confinarla di conseguenza nel mito, bensì il momento è quello di cominciarla a visualizzare nel futuro, a riconfigurarla nella posizione che la attende nel mondo dell’intattenimento del domani. Non è più tempo di inquadrare la luce del proiettore, ma quello di guardare a chi popolerà questo spazio, come e quando lo farà.
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