Le mani di forbice si sono trasformate in rami affilati. I cani rianimati sono diventati procioni da laboratorio. I nuovi freak sono loro. Figli ammaccati, feriti e strambi di quell’anarchico di James Gunn. Forse il vero erede di Tim Burton in materia di outsider a cui dare voce, spessore ed empatia nel cinema pop. E non è un caso che proprio come il vecchio Tim tanti anni fa, anche James adesso sia pronto al grande passo in casa DC. Solo che questa volta il mantello non è sulle spalle di un Uomo Pipistrello, perché copre le spalle larghe di un eroe lucente come Superman. L’essere perfetto per antonomasia.
Una perfezione che, ne siamo certi, James Gunn sporcherà, puntando tutto sulla solitudine di un “uomo” che di fatto nasce come un outsider catapultato in un mondo non suo. Tutto coerente con una visione d’autore che Guardiani della Galassia 3 ha portato avanti con convinzione. Perché l’ultimo film di Gunn, oltre ad aver chiuso alla grande la sua saga dei perdenti in casa Marvel, è davvero una grande celebrazione della nobile arte del fallimento. Cerchiamo di capire insieme perché.
I’m a creep: strisciare nel dolore
Strano ma vero: Rocket è malinconico. E così Guardiani della Galassia Volume 3 si apre con una delle canzoni più struggenti dei Radiohead. Quella Creep che è quasi un urlo disperato che graffia la gola. Un inno alla solitudine come rimedio all’inadeguatezza dello stare al mondo. Una sensazione scomoda che James Gunn non rigetta, ma abbraccia. Perché dopo due film sui perdenti (i Guardiani stessi), il regista americano ha sfornato un epilogo sulla perdita. Un terzo atto in cui i ricordi dolorosi di Rocket (impregnati di un male fisico e psicologico) sono il binario della storia, segnando un viaggio pieno di rimpianti, traumi e ferite ancora aperte. Nasce così il film che non ti aspetti, e sorprende proprio grazie al tatto con cui riesce a sporcare la solita brillantezza di Star-Lord e compagnia. Il tempo del cazzeggio è finito.
Basta avventure negli anfratti più remoti della galassia. Adesso bisogna entrare nel posto più scomodo: il buco nero che tutti i Guardiani hanno al posto del cuore. Come suggerisce Creep, tutti loro sono strane creature (“I’m a weirdo”) che hanno affogato i loro problemi in una famiglia surrogata. Ma ogni tanto le cose tornano a galla, come fanno i conati di vomito. Ecco, Guardiani della Galassia 3 è indigesto perché ha il coraggio di mostrarci che ogni tanto le cose non vanno, che la tristezza esiste, che si può anche fallire. E soprattutto che ogni tanto è giusto stare da soli.
What the hell am I doin’ here? Stare da soli
Che diavolo ci faccio io qui? Questo canta a squarciagola Thom Yorke. Un senso di smarrimento che ritroviamo anche in tutti i Guardiani alla fine del film. Tutti hanno affrontato percorsi personali che li hanno portati a riflettere sul loro posto del mondo e soprattutto sul proprio senso di appartenenza alla squadra. Una squadra che è servita a unire anime ferite e reiette che si sono riconosciute. Adesso, però, Star-Lord, Rocket e Drax sono cambiati. Come? Hanno guardato in faccia il dolore, non gli hanno voltato le spalle ubriacandosi di ironia (come nei primi due film della saga) e hanno capito cose importanti. Rocket, infestato dal ricordo degli amici perduti, adesso è pronto a guidare un team nuovo in cui dare libero sfogo al suo genio spesso nascosto dietro il sarcasmo. Drax ha estinto la sua fame di vendetta (nei confronti di chi aveva ucciso sua moglie e sua figlia) e ha compreso il suo vero talento: proteggere come fanno bene i veri padri.
Mantis è stanca di vivere all’ombra degli altri e vuole capire chi sia davvero. Star-Lord, invece, ha preso il suo ultimo schiaffo illudendosi di conquistare anche la nuova Gamora. Non ci riuscirà, capendo che era solo innamorato di un’idea. Un’idea effimera, alimentata dalle sue stesse illusioni. No, quella Gamora non è la sua Gamora. Infatti non partecipa all’abbraccio finale tra i Guardiani standosene in disparte. E sarà felice di tornare dalla sua vera famiglia: i Ravagers. Guardiani della Galassia 3 non uccide nessuno, ma ammazza l’idea che gli eroi debbano salvarsi insieme. La vittoria della solitudine lascia l’amaro in bocca, ma ci fa credere in un superpotere spesso sottovalutato: la consapevolezza di noi stessi. Limiti compresi, ovviamente.
I want a perfect body: la perfezione è ridicola
Ancora Creep a illuminarci la strada. Nel pezzo si canta anche la ricerca impossibile di una vera e propria chimera: la perfezione. “I want a perfect body, I want a perfect soul”. Nulla di questo sarà possibile, anche perché James Gunn non ha solo deciso di esaltare la stranezza, ma di ridicolizzare la perfezione. Non è un caso se il grande antagonista del film, ovvero l’Alto Evoluzionario, punti alla creazione della razza perfetta. Una ricerca ossessiva, malata e disperata che lo porterà a seminare morte e dolore, trasformandolo in un pazzo col volto sfigurato (dal suo stesso esperimento). Discorso simile anche per Adam Warlock, che ha giocato con le aspettative del pubblico. Sulla carta (come nei fumetti) ci aspettavamo tutti un essere straordinario e al limite dell’invincibile. Invece ci siamo trovati davanti a un bamboccio capriccioso senza molto da dire. Destabilizzante per alcuni. Deludente per altri, ma tutto coerente con la poetica di un autore che vuole scardinare molti falsi miti dei nostri tempi. Come mostrarsi sempre felici, come credersi sempre vincenti, come aspirare sempre all’eccellenza. Una morale preziosa che ci porteremo dietro e custodiremo. Come un vecchio walkman.
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