Vincere il buio con la luce sullo schermo. Immagini in movimento che non possono stare ferme. Il cinema è vita per sua stessa natura.
Eppure, come ogni forma d’arte visiva, ha sempre fatto i conti con i titoli di coda e l’inesorabile Signora Morte. Ogni tanto ci piace pensare che il cinema renda immortali, che la sua dimensione immaginaria possa preservare attori e attrici rimasti incastonati per sempre nell’immaginario. Però è anche vero il contrario. È anche vero che il cinema può celebrare la morte, senza scansarla. La abbraccia nel suo grande rituale collettivo tanto simile a un funerale condiviso. Ce ne siamo accorti sempre più spesso negli ultimi anni in cui tanti film hanno affrontato il lutto guardandolo dritto negli occhi. E allora ecco come abbiamo beffato e accettato la morte attraverso il cinema.
1. Chadwick Boseman Forever
“No woman, no cry”. Con buona pace di Bob Marley, le donne wakandiane piangono eccome. Piangono madri, sorelle, amiche. Piange un popolo intero grande quanto il pubblico del Marvel Cinematic Universe.
Fin dal primo trailer Black Panther: Wakanda Forever aveva puntato i riflettori sul grande vuoto lasciato dalla morte improvvisa di Chadwick Boseman. Un lutto troppo grande per essere ignorato, e così il regista Ryan Coogler ha deciso di rendere quell’addio il carburante di un film intero. Black Panther: Wakanda Forever fa una cosa semplice e allo stesso tempo difficilissima: fa coincidere alla perfezione il personaggio di T’Challa con quello di Boseman, entrambi scomparsi per un male incurabile. E allora il Marvel Cinematic Universe, che col suo pubblico parla spesso proprio attraverso lo schermo, decide di celebrare la sua morte con un enorme rito cinematografico.
Nessuna beffa del lutto, ma il bisogno di abbracciare il dolore per attraversarlo. È questo il percorso eroico di Shuri, sorella che parte dalla rabbia e dal senso di colpa (per non essere riuscita a salvare il fratello) per diventare finalmente matura, consapevole, degna Pantera Nera. L’unica nota malinconica di quel grande percorso di accettazione della morte che è Wakanda Forever arriva nel finale. Arriva quando Nakia afferma che T’Challa aveva preparato lei e i loro bambino alla sua morte. Cosa che Boseman non ha mai voluto fare in vita, non avendo mai parlato della sua malattia. Piccola utopia in un film in cui realtà e finzione parlano la stessa lingua.
Un film che usa il lutto come stimolo per andare avanti e guardare oltre senza crogiolarsi nel dolore. E non è un caso che nonostante l’acqua sia l’elemento costante del film, Wakanda Forever finisca con le fiamme che bruciano i ricordi per non annegare soltanto nelle lacrime.
2. Sempre a bordo: il caso Paul Walker
Stessa strada ma direzione contraria per Toretto e il suo grande amico fraterno Brian. È il 30 novembre 2013 quando Paul Walker perde la vita in un maledetto incidente stradale. Morte beffarda per chi ha costruito la propria carriera su un’epica saga automobilistica. Una perdita troppo grande in un franchise in cui il concetto di famiglia sincero e fondamentale. Un senso di appartenenza al branco che Vin Diesel e compagni hanno trasformato in un commovente saluto cinematografico nell’epilogo di Fast & Furious 7. Nel finale del film il personaggio di Brian si ritira dalle fatiche della banda per dedicarsi finalmente alla sua famiglia.
È una scena toccante, sincera, girata col giusto tatto. Una sequenza in cui lo sguardo di Vin Diesel coincide con il nostro. Toretto diventa spettatore come noi mentre guarda Brian sulla spiaggia dedicandogli i suoi ricordi e il suo affetto. E poi il colpo di grazia: la scena cult rimasta impressa a tante persone. L’ultimo saluto a Paul Walker è un addio ricreato in CGI grazie al coinvolgimento del fratello dell’attore (Cody Walker), ma nonostante tutto rimane autentico e per niente forzato. L’inquadratura a volo d’uccello che chiude Fast & Furious 7 divide le strade di Toretto e Brian ma in realtà unisce per sempre Walker e Fast & Furious. Un omaggio consolatorio rimasto nel cuore (e nelle retine) dei fan.
3. Fantasmi dal passato: Harold Ramis
Si può avere nostalgia della nostalgia? È la prima cosa a cui pensi guardando Ghostbuster Legacy, che sembra rievocare i fasti degli anni Ottanta parlando la stessa lingua di Stranger Things. Eppure dietro quel passaggio di consegne tra vecchia guardia e nuova generazioni si insinua qualcosa di più profondo. Per una volta il titolo italiano è più sincero e coerente rispetto a quello originale (Ghostbusters Afterlife) perché qui si parla soprattutto di eredità. Fuori e dentro il film. Quella che Jason Reitman ha raccolto dalle mani di suo padre Ivan e (ovviamente) quella che la piccola Phoebe ha sulle sue spalle dall’inizio alla fine del film.
Siamo passati da acchiappare i fantasmi a esserne rincorsi: saremo all’altezza del passato? Deluderemo i nostri antenati? L’ectoplasma del mitico Egon di Harold Ramis attraversa Ghostbusters Legacy dall’inizio alla fine. Lo fa sotto forma di responsabilità, malinconia e dispiacere.
Un fardello che si alleggerisce proprio con l’entrata in scena del fantasma di Egon, che aiuta la nipote a vincere il nemico mentre la guarda con occhi fieri. Il ricongiungimento dei vecchi Ghostbusters dura un attimo, ma è abbastanza per ricordarci che ogni storia d’amore è una storia di fantasmi. Come le persone che ti rimangono dentro e ogni tanto riaffiorano come ricordi. Come spettri, appunto.
Di recente ce lo ha ricordato anche Boris 4 con il toccante ricordo di Mattia Torre, traslato nella figura dello sceneggiatore-fantasma interpretato da Valerio Aprea. Come a dire che chi ha scritto questa nuova stagione senza quel grande amico è sempre stato guidato dal suo esempio mite, silenzioso, ma fondamentale per accendere la luce.
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