Colin Farrell, attore irlandese naturalizzato americano, è uno dei maggiori esempi di evoluzione attoriale che una carriera artistica di questo tipo abbia mai conosciuto. Non è infatti difficile notare quanto le sue performance, inizialmente istintive e grezze, si siano evolute nel tempo. L’attore è migliorato al tal punto da riuscire a prendere posto in alcune delle opere più interessanti del nostro tempo. Come dimenticare tutti gli inciampi e le prove poco riuscite che hanno costellato la carriera di Farrell? Ma è proprio grazie a questi ostacoli che l’attore irlandese rappresenta, più di chiunque altro, un monito per ogni attore ancora immaturo.
In giovane età, dopo gli anni scolastici, Farrell prende parte a un corso di teatro, ritrovandosi poi coinvolto in alcune piccole apparizioni che gli procurano il suo ruolo di lancio in Tigerland. Il film di Joel Schumacher rappresenta infatti il punto di partenza per la sua carriera e il suo approdo, piuttosto rapido, a Hollywood. Questa immaturità è però molto evidente sul set di Minority Report, dove Farrell costringe Steven Spielberg a ripetere più volte una stessa battuta, tanto da scoraggiare il regista e la troupe. Il talento, che certamente presenta una componente innata, deve essere coltivato se si vogliono raggiungere determinati risultati.
Se la rigidità del volto e la predisposizione estetica gli hanno inizialmente spalancato le porte del cinema, è stato solo il suo impegno nel lavorare su personaggi complessi, psicologicamente e narrativamente, a garantirgli la carriera di cui oggi gode. Parliamo di opere come The Lobster, Miami Vice, The New World e molti altri. In particolar modo, la collaborazione con Martin McDonagh (In Bruges, 7 psicopatici, Gli spiriti dell’isola), sembra sintetizzare l’enorme e faticosa maturazione artistica di Colin Farrell, mostrando al contempo gli ottimi risultati che una buona congiunzione regista-attore può produrre.
Decostruzione a Bruges

In Bruges è sicuramente uno dei film più conosciuti di Martin McDonagh. Non solo riesce a raccontare una storia di spessore, grazie a una marcata attenzione alla psicologia del protagonista, ma mette in scena una vera e propria decostruzione, in chiave ironica, del gangster movie. Nel film, Colin Farrell interpreta Ray, un sicario tormentato dai sensi di colpa per via di una morte accidentale avvenuta durante la sua prima missione. In questo viaggio tra decostruzione di un genere e introspezione, Farrell è accompagnato dall’abilissimo Brendan Gleeson. Un personaggio secondario che funziona sia come spalla comica, sia come specchio riflessivo per i tormenti esistenziali di Ray.
Ed è proprio l’aspetto psicologico che caratterizza il gangster protagonista a costituire il centro nevralgico attorno a cui ruota l’intera narrazione, allontanando lo spettatore dalla classica visione del gangster. Lo sguardo di McDonagh decostruisce completamente l’immagine stessa dell’assassino, smontata in tutti i suoi aspetti e cliché. Ray è divorato dal senso di colpa, dando avvio a una lenta e sofferta messa in discussione del suo lavoro e della sua intera filosofia di vita. Accompagnato dalla sferzante ironia tipica del regista, Farrell mette in scena un personaggio destinato perdersi per le strade della città, preso a disquisire per ore sul senso dell’esistenza con il suo partner, o ancora a lamentarsi della violenza che ha corrotto la sua vita.
Questa decostruzione non passa solo attraverso la trama, l’intreccio o la messa in scena, ma si affida anche all’interpretazione degli attori. In questo caso, l’attore irlandese ci regala una delle sue performance più interessanti dal punto di vista della resa psicologica. Da un sicario di professione ci aspetteremmo un volto cupo, duro, inscalfibile, e invece Farrell lavora sull’espressione facciale e sulla propria corporeità per restituire un’anima fragile, dilaniata dal rimorso. Senza cadere nel ridicolo, ma avvicinandosi all’assurdo, Farrell riesce a scardinare la figura del killer spietato: caratterizzando il proprio personaggio con malinconia, con occhi lucidi e il volto cupo. Mettendo in primo piano l’uomo rispetto all’archetipo, ci rivela tutta l’umanità di un’anima perduta.
Nella sceneggiatura originale, Ray e Ken erano britannici, ma quando Colin Farrell e Brendan Gleeson si unirono al progetto, i personaggi furono cambiati in irlandesi per adattarsi meglio alle loro naturali inclinazioni.
Una ricerca tra 7 psicopatici

7 psicopatici si pone tra i lavori più metacinematografici a cui l’attore irlandese abbia mai preso parte. Colin Farrell è qui chiamato a interpretare il ruolo di Marty Faranan, improbabile alter ego dello stesso regista. Si tratta di uno sceneggiatore in piena crisi creativa, incapace di portare a termine il film che sta sviluppando: appunto, 7 psicopatici. Il film a cui assistiamo diventa così un intreccio, tipico dell’era postmoderna, sospeso tra finzione e realtà. Ci muoviamo infatti su due piani narrativi: quello che avviene “realmente” nella storia, e quello che è puro prodotto dell’immaginazione dello sceneggiatore. Come ogni film postmoderno che si rispetti, più di una volta finzione e realismo si mescolano, decostruendo l’intero mestiere dello sceneggiatore.
L’abilità della messa in scena di McDonagh qui sta proprio nel creare continui rimpalli tra la realtà della storia e l’irrealtà del film che Marty sta progettando. Si generano così cortocircuiti tra l’attesa spettatoriale e gli sviluppi narrativi, disattendendo più volte le aspettative del pubblico. Esplicativo, in questo senso, è il dialogo tra Marty e Billy (l’iconico Sam Rockwell), in cui i due battibeccano su come dovrebbe “finire” il film: con una lunga e rocambolesca sparatoria (Billy) o, più semplicemente, con un dialogo riflessivo tra i protagonisti (Marty). O ancora, quando Marty, o chi per lui, cambia le storie o addirittura i “messaggi” di questi personaggi, influenzando gli andamenti di trama o il finale stesso.
Rispetto a In Bruges e Gli spiriti dell’isola, McDonagh alza ulteriormente l’asticella del grottesco e dell’assurdo, mettendo in evidenza tutta la follia dell’atto creativo. Farrell è quindi chiamato a lavorare su un certo tipo di monotonia dello sguardo, per fare da contrappeso all’esplosività dell’interpretazione di Sam Rockwell. Rifugiandosi nel cliché dello scrittore alcolizzato (parodiato dallo stesso film) e muovendo il proprio personaggio tra reazioni “realistiche” e comportamenti al limite della overreaction, Farrell si specializza nel ruolo di comprimario. La grandezza dei grandi attori, infatti, sta anche nella loro capacità di adattarsi ai colleghi che li circondano, sfruttando al meglio le loro interpretazioni per arricchire la propria.
Gli spiriti della consacrazione

Tra i lavori più interessanti del 2022, Gli spiriti dell’isola è uno dei film della consacrazione di Colin Farrell. Con quest’opera Farrell e McDonagh tornano in patria, l’Irlanda rurale e selvaggia, per mettere insieme un vero e proprio “cinema dell’assurdo”. Un film complesso che si muove tra il non-sense beckettiano e il folklore irlandese, capace di farsi riflessione esistenziale e nichilista dell’uomo moderno. Farrell interpreta qui Pádraic, un contadino che trascorre le sue giornate prevalentemente tra ozio e bevute, insieme all’amico Colm (ancora una volta interpretato da Brendan Gleeson). Un giorno, senza dare spiegazioni, Colm annuncia la fine della loro amicizia.
Questa rottura, che avviene senza una vera e propria causa, determina la perdita dell’equilibrio precario di Pádraic, facendolo sprofondare in una terribile solitudine. Pádraic perde infatti il proprio rifugio da un mondo crudele e senza senso. L’immaginaria isola di Inisherin, infatti, è minacciata dalla guerra civile, che possiamo solo sentire attraverso la magnifica colonna sonora di Carter Burwell e che diventa un simbolo di morte. Come nel teatro dell’assurdo di Beckett, l’incipit è solo un pretesto per mettere a nudo l’insensatezza della vita e il nichilismo a cui siamo approdati nel secolo delle grandi guerre.
Farrell, con una performance attoriale essenziale, mette a nudo l’animo del proprio personaggio, mostrando un uomo in continua lotta per l’affermazione di sé. Pádraic viene caratterizzato con tutta una serie di micro movimenti facciali che fanno trasparire l’ansia e il panico di un lutto. I moti di riflessione che vediamo sul suo volto tirato sono solo pause, momenti di silenzio prima delle reazioni più violente del personaggio. La pelle corrugata e gli occhi stralunati si fanno carico di quella disperazione che solo un’umanità sull’orlo di una guerra senza significato può conoscere. I tempi di Minority Report sono lontani, e quella immaturità, superata grazie alle lezioni dei grandi autori, ha trasformato Farrell in un attore versatile e capace, in grado di raccontare la complessità di un’umanità persa nel buio.
“Non posso neanche pensare di rinunciare a qualcosa che scrive [McDonagh], perché è uno scrittore straordinario e sono sempre profondamente toccato emotivamente e psicologicamente dai mondi che crea e dai personaggi che disegna” – Colin Farrell