Che storia strana quella di CODA – I segni del cuore, il film di Sian Heder fresco vincitore del premio Oscar. Un film distribuito direttamente su Apple Tv+ (in Italia uscito direttamente in home video e in questi giorni disponibile su Sky e NOW), una commedia indie e piccola che sembrava un topolino rispetto ai giganti candidati nella categoria di Miglior Film.
Perché CODA – I segni del cuore non aveva candidature per la miglior regia e nemmeno per il montaggio o la fotografia, categorie parecchio importanti per indicare la via verso il premio più ambito.
Eppure, è successo.
CODA – I segni del cuore ha vinto il premio Oscar 2022 come Miglior Film, centrando tutte le sue tre candidature, e dando inizio alle solite e inevitabili critiche che quasi sempre circondano i vincitori. Stavolta la natura stessa del film mostrava particolarmente bene il fianco: davvero, in un’annata così ricca e variegata di film, stili e generi (ne abbiamo parlato meglio nel nostro articolo sulle 5 cose che abbiamo capito dagli Oscar 2022), diretti da mostri sacri della settima arte, autoriali e capaci di esprimere al meglio il linguaggio cinematografico a cui appartengono, era questo il film più meritevole a cui dare il premio maggiore dell’edizione?
Insomma, CODA – I segni del cuore è da considerarsi davvero il miglior film dell’anno? Inoltre, evitando paragoni con gli altri film nominati, si tratta davvero di un film senza meriti artistici? A guardare attentamente, il film di Sian Heder è forse l’unico titolo tra i dieci che poteva ambire davvero al premio per il miglior film. Ecco il perché.
Semplice non vuol dire minore
Quando è stato deciso che i film semplici devono, per forza di cose, essere considerati film minori? Si è costantemente alla ricerca di film complessi, stratificati, eccellenti, tanto da scordare la difficoltà della semplicità. Anzi, ancora peggio: essere semplici oggi sembra quasi un difetto. In costante ricerca di un’unicità, di una particolarità che possa catalizzare l’attenzione, ci siamo disabituati alla normalità, tanto da confonderla con qualcosa degna di essere lasciata ai margini. Forse è una conseguenza delle dinamiche dei social network, in cui è costante la ricerca del mettersi in evidenza e distinguersi, dimostrando di essere unici. Se questo è un ragionamento valido per le persone perché non poterlo traslare anche ai film?
L’equazione più rapida che ne consegue è che un film semplice significa un film senza qualità. Significa minore, qualcosa che sta qualche gradino sotto rispetto ad altro, che quasi non è degno del nostro sguardo costantemente rivolto verso l’alto. Eppure, dovessimo ragionare con questa formula quasi matematica dovremmo fare a meno della musica pop e tenere le nostre radio spente, o dovremmo lasciar perdere i best seller in libreria e interessarci solo agli scaffali riempiti di “mattoni polacchi“. Cerchiamo davvero questo nell’arte, o rischieremmo di allontanarci ancora di più da qualcosa che sembra limitarsi sempre più a un’élite, a un circolo privato di appassionati, come gli incassi delle sale cinematografiche stanno pian piano dimostrando sempre più?
Un film semplice non è un film minore e non va guardato dall’alto verso il basso. CODA – I segni del cuore non avrà la portata epica di Dune o la regia di Paul Thomas Anderson o Steven Spielberg (ma d’altronde quanti altri registi ce l’hanno?), non sarà autoriale come un film respingente per il pubblico come Il potere del cane, ma ciò non toglie che, appartenendo alla sua dimensione di piccolo film indipendente, centra assolutamente tutti gli obiettivi previsti. E non lo fa in maniera furba e ricattatoria, ma attraverso una storia che sa costruire un’empatia forte tra personaggi e spettatori. Sembra la cosa più banale e semplice. Invece, oggi, è la più difficile.
Creare empatia
La fruizione digitale e liquida di musica e film ci ha abituato a essere più veloci a chiudere che ad aprire. Basta il tempo di un click per scegliere di non guardare un’opera televisiva o cinematografica, per cambiare canzone, per ridurre la nostra pazienza. Se vogliamo usare la solita metafora del grande schermo come una finestra su un altro mondo e su altre storie, possiamo dire che mai come in questi ultimi tempi (e la pandemia ha accentuato questo comportamento) è sempre più semplice mettere una bella tenda davanti e oscurarci così la vista. Così facendo, non solo ci siamo abituati a selezionare sempre di più in base a ciò che crediamo di voler vedere (addirittura l’algoritmo delle piattaforme cerca di venirci incontro per rendere la nostra volontà di scoprire panorami diversi ancora più pigra), ma abbiamo posto un muro verso quello che vediamo.
Il risultato è che è sempre più difficile sentirci davvero al di là dello schermo, essere non solo spettatori ma anche partecipanti dei racconti. Rimaniamo ammaliati dalla messa in scena, dall’epica e dagli effetti speciali, senza provare a comprendere i personaggi di quelle storie. D’altronde, il grosso problema dell’immedesimazione dello spettatore ha dato adito a varie critiche nell’ultimo periodo, come quelle recenti sul film Pixar Red (che ritengono incomprensibile capire la protagonista e appassionarsi al film se non siamo ragazzine dodicenni). Così facendo crolla tutto il potere delle storie, il motivo principale per cui esistono.
CODA – I segni del cuore riesce nel difficile compito di arrivare al cuore dello spettatore con sincerità. Nella storia di Ruby e la sua famiglia non cerca uno sguardo patetico artificioso, tratta tutto con la massima onestà (e, di conseguenza, la regia e la scrittura non possono che sposare quest’essenzialità) e non rende i personaggi vittime della loro condizione. Il risultato è che, soprattutto nel terzo atto, il film riesce a parlare e comunicare il proprio cuore emotivo agli spettatori, dando soprattutto una gran bella dose di soddisfazione arrivati ai titoli di coda. La soddisfazione di una bella storia.
Perché è il miglior film
Con il sistema di voto preferenziale con cui i membri dell’Academy votano il miglior film, appare normale che un film come CODA – I segni del cuore riesca a raccogliere le attenzioni e il giudizio positivo di gran parte dei votanti. Si tratta di quel feel good movie che non lascia indifferenti e accontenta un po’ tutti. Certamente questi risultati potrebbero far storcere un po’ il naso ai puristi che intendono gli Oscar come un premio che dovrebbe consacrare l’eccellenza più che la preferenza, ma si tratta di un problema (se vogliamo chiamarlo tale) che mette in mostra un periodo contraddittorio e problematico tra quello che dovrebbe essere una celebrazione del cinema e uno show televisivo, un elogio all’arte “alta” e il bisogno di arrivare al pubblico, un conflitto -quasi come quello espresso nel film- tra tradizione conservatrice e rinnovamento di rottura.
Data la sua natura, si potrebbe anche pensare che il film vincitore sia esente da qualsivoglia qualità cinematografica (la critica più dura è quella di considerarlo, in senso dispregiativo, un film televisivo – dimenticando che i prodotti tv oramai non hanno nulla da invidiare alla qualità della dimensione del grande schermo). Oltre uno sguardo superficiale, CODA – I segni del cuore mette a segno (e perdonate il gioco di parole) alcune sequenze che, invece, appartengono al cinema migliore.
Un esempio su tutti: la scena in cui, finalmente, Ruby canta la canzone, in duetto con Miles, durante il saggio di musica. Per tutto il film, la tensione si è accumulata verso questo momento, indispensabile per il futuro della protagonista. La ragazza sale sul palco e inizia a cantare. Noi spettatori conosciamo la canzone, abbiamo sentito questa parte iniziale più volte nel corso del film, durante le prove, e ci aspettiamo di sentire l’intera performance. Invece, Heder ci sorprende, mettendo lo spettatore nei panni della famiglia di Ruby e togliendo l’audio al film. Improvvisamente, non possiamo più capire se Ruby sta cantando bene o male, non possiamo ascoltarla per giudicarla una stella nascente come ripete costantemente il professor V.
Come i membri della famiglia Rossi non ci stiamo godendo il momento e possiamo solo guardarci intorno. Ecco la parola chiave: guardare. È attraverso lo sguardo che CODA – I segni del cuore si riappropria di ciò che rende cinema il cinema: l’importanza di comprendere le immagini, oltre che sentire le parole. Si dà così tanta importanza alla sceneggiatura (e ai fantomatici “buchi”) di un film da aver messo in secondo piano il linguaggio primordiale del cinema, che caratterizza quest’arte sin dalle proprie origini.
E basta questo: vedere i volti commossi dell’audience mentre ascoltano Ruby è molto più forte e diretto che sentirla cantare (così come l’incapacità di descrivere a parole al Maestro come si sente quando canta). Sarà l’epifania anche per il personaggio del padre (il premio Oscar Troy Kotsur) che finalmente capirà e comprenderà le ragioni della figlia. Il conflitto generazionale, perfettamente integrato nella nostra contemporaneità (e, ricordiamolo, il premio al Miglior Film è scelto anche in base al presente in cui viene consegnato), è risolto attraverso una comprensione di diversi linguaggi (simile a quanto avviene nel premio Oscar -più autoriale- al miglior film internazionale Drive my car).
In un’annata in cui si aveva quasi l’imbarazzo della scelta nello scegliere un solo film, ecco il cinema migliore. Quello che sa emozionare il grande pubblico, quello sincero e diretto che non ha bisogno di effetti visivi straordinari e budget mastodontici, quello che racconta il presente e invita a comunicarsi e comprendersi, quello che non rinuncia alle sue caratteristiche primordiali. Quello semplice. E che proprio nella sua semplicità emerge e si mette in evidenza.
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