Di film come Cloud ne servirebbero tre, quattro, cinque al mese. Perché, da qualunque parte li si guardi, sembra che abbiano qualcosa da dire. Magari non sempre a fuoco, ma di sicuro stimolante. E se oggi Kiyoshi Kurosawa viene insignito di un gran numero di superlativi (incontestabili) è anche, e forse soprattutto, grazie a opere come questa – non soltanto in virtù di vette insuperate come Cure e Kairo.

Cloud è la ciliegina sulla torta di un 2024 impressionante per il regista, iniziato con il sublime Chime e proseguito, prima del film in questione, con il curioso esperimento-remake di Serpent’s Path. Una filmografia che continua coerente nella lucida disamina di un mondo alle porte dell’immanente e inevitabile oblio. Di una fine già iniziata senza che molti se ne siano accorti. Molti tranne Ryosuke Yoshii, reseller di qualsiasi tipo di oggetto, borse o action figure che siano, la cui incolumità verrà messa a repentaglio dalla vendetta di chi è stato frodato attraverso la vendita online.

Cloud
Genere: Thriller
Durata: 123 minuti
Uscita: 17 Aprile 2025 (Cinema)
Regia: Kiyoshi Kurosawa
Cast: Masaki Suda, Kotone Furukawa

Luci di schermi e scintille di fucili

Cloud
Una scena di Cloud – ©Minerva Pictures

Nuovamente le ansie collettive, le crisi d’identità, la rete e i pericoli di un ambiente virtuale con il quale non è possibile entrare in comunione. Nonostante siano passati quasi venticinque anni da Kairo, quel non-luogo non smette di generare spettri. Dalle incertezze di un web ignoto, di ieri, alla disillusione odierna, dopo aver provato a capirlo. Il tempo scorre e con esso la tecnologia, il digitale, cambia prospettive, si evolve e muta lo stesso fruitore. L’utente, user, account, che cerca il più possibile non soltanto di restare connesso ma anche, quando possibile, di trarre vantaggio da quel mezzo, dominarlo capitalisticamente e consumisticamente (fare reselling) fino a distaccarsi dal collettivo – qui lo scontro, alla base, è venditore-cliente. Ma da astratte e irraggiungibili le ombre di inizio Duemila diventano carne, esondano dallo schermo e invadono lo spazio privato.

L’hater supera il limite previsto e cambia la dimensione del suo cloud, così che, ancora una volta nel cinema del cineasta giapponese, l’inaspettato lacera il quotidiano e l’immagine diventa atto. La rabbia trasmuta in oggetto. Le conseguenze di ciò che accade on-line si manifestano off-line e dal pessimismo nei confronti del digitale si passa a una manifesta (e radicale) perdita di speranza per l’umanità tutta. Una riflessione che pare posizionarsi come inversa rispetto a quella del connazionale Shinya Tsukamoto, in relazione alla sua ultima fatica. Laddove Hokage trasformava in evanescenti le ossessioni corporee di un’intera filmografia, Cloud compie il percorso inverso e materializza ciò che prima era evocato, suggerito, accennato. A loro modo – e pur nella loro piccola dimensione di opere “minori”, qualsiasi sia il significato attribuibile a tale termine – punti di snodo utili per comprendere l’evoluzione delle due poetiche.

Decodificare e mettere in discussione il genere

Cloud
Una scena di Cloud – ©Minerva Pictures

Quello delineato da Kurosawa è uno stato di smarrimento, di disagio, oramai collettivo. Una tensione enfatizzata dai rapporti virtuali, dalle logiche di un web che intrappola distorcendo premesse e promesse. Una contemporaneità autodistruttiva, rintracciabile e rappresentabile solo attraverso la fluidità l’ibrido, flirtando con i generi e tradendo continuamente gli immaginari filmici. Come sovente nel suo cinema, il cineasta nipponico parte da uno schema scarno, semplicissimo, spoglia strutture narrative e visuali dagli orpelli e le riveste di un’inquietudine raggelante. Stilizzato e allo stesso tempo caotico, per via di un preciso distacco emotivo-visuale.

Come in Cure, Creepy o il mai troppo citato Tokyo Sonata, la messa in scena si fa glaciale, asettica fino alla deformazione del concreto, ove un colpo di vento, uno sguardo, un flash improvviso possono accecare, destabilizzare. Come nel momento in cui Cloud sposta una shitstorm virtuale, già in corso, verso l’azione fenomenica; inscena un revenge movie, ingaggia un duello e una caccia a là Peckinpah, in maniera tanto netta, e apparentemente noncurante, da sembrare un nuovo, differente film.

Il suo action però è anticlimatico, privo di enfatizzazioni e adrenalina – come già accadeva nell’ultimo atto di Seventh Code. A Kurosawa importa poco del pathos: spesso, almeno da Cure in poi, di primaria importanza è la negazione degli spazi, dei tempi, dell’esistenza stessa. Il nulla, il vuoto, l’eco di una società annichilita e in balia del caos. Così il fuoricampo, l’ignoto (simbolicamente la rete stessa, cosa sta dall’altra parte dello schermo), diventa prioritario, più del tangibile. La forza delle immagini – primario veicolo di senso – di questo autore risiede soprattutto in questo: a inquietare è più quello che omette, che volutamente rimuove, che non permette di conoscere. È in quel limes tra percezione e occulto che si nasconde il perturbante.

Gli ultimi giorni dell’umanità

Cloud
Una scena di Cloud – ©Minerva Pictures

Nel cogliere in maniera puntuale le paranoie del presente, Kurosawa guarda alla sua produzione precedente. C’è buona parte del suo cinema, sia alto che basso (molti direct-to-video dei primi anni Novanta) in Cloud, che diventa così perspicuo aggiornamento del suo stesso linguaggio in chiave moderna e funziona anche al netto di un ritmo che, talvolta, soffre alcune ridondanze. A fare il gioco, infatti, è sempre l’inquietudine complessiva, il disagio asfittico di una società sull’orlo dell’abisso. L’annullamento interiore che si riflette sul modo in cui il cineasta nipponico inquadra l’esterno, popolato da spiriti e nulla più, in cui l’unico controcampo possibile di uno sguardo logorato pare la finzione – uno schermo, un’illusione che allontana dalla redenzione.

Cloud vive di ambiguità irrisolte, di tensione vuota e ostruita. Non esplode neanche quando l’azione e il melodramma potrebbero farla da padrone. E in ciò trova la sua dimensione alienata, mai disperata, neppure quando appare chiaro che «è così che si giunge all’inferno». Anche merito di uno straordinario Masaki Suda nel ruolo del protagonista, abile nel raccontare tutto un modo di vivere la vita e quegli eventi – di perdere il controllo e farsi divorare dall’interno da un virus sociale allo stato pandemico – soltanto attraverso lo sguardo e le espressioni del volto.

Cloud si configura quindi come un intelligente more of the same, un nuovo tassello stratificato del cinema di Kurosawa che sa dialogare attivamente con il passato. Anche perché a guardare il futuro si rischia di vedere solo una nebbia informe nella quale non può esser chiaro cosa si ha davanti e chi si è dentro, mentre si fa strada l’idea di esser parte di una catastrofe ineluttabile.

Conclusioni

7.5 Disilluso

Passano gli anni, tutto muta ma niente cambia. Con Cloud, Kiyoshi Kurosawa torna a dialogare con la rete digitale spostando però le sue attenzioni sugli effetti del web e le conseguenze delle azioni online. Il cineasta giapponese si muove ancora bene in quella zona liminale che attraversa i generi, con quel modo di fare cinema che dà pochi punti di riferimento, giocando con la tensione e l'inquietudine. L'ennesima, lucidissima visione apocalittica di una società in cui detta legge un caos annebbiante.

Pro
  1. La scoperta Masaki Suda
  2. L’uso degli ambienti, dello spazio e dell’immagine filmica come mezzo per intercettare ciò che la parola non potràdire
  3. Il passaggio da un genere all’altro, sfruttandone i codici e ribaltandoli
Contro
  1. Non sempre la gestione del ritmo e dei tempi è esaltante, soprattutto per qualche ridondanza di troppo
  • Voto ScreenWorld 7.5
Condividi.

Siciliano, nato lo stesso anno dell'uscita di Evangelion e qualcosa dovrà pur dire. Critico e giornalista cinematografico e televisivo, con una smodata passione per il cinema fatalista di Hong Kong e le polpette al sugo. Laureato magistrale in Storia dell'arte - con una tesi su Robert Rauschenberg e Tom Phillips che gli ha tolto il sonno e la ragione - così da poter orgogliosamente dire a tutti "prendi l'arte e mettila da parte". Nello staff del Catania Film Fest. Ritiene che un film al giorno non possa togliere il medico di torno, ne servono almeno due. Parla in terza persona solo in alcune occasioni.