Il cinema, nel rituale della sala, è una delle esperienze per definizione più complete a cui si possa pensare. Le file davanti la biglietteria, i bambini attaccati alle mani dei genitori impazienti di entrare, lo scoppiettio dei popcorn caldi seguito dal profumo che invade i corridoi, il rumore della sala piena che attende lo spegnersi delle luci. Un viaggio di poche ore senza età, fuori da ogni epoca, che annulla il trascorrere del tempo e permette l’accesso in una dimensione altra. Il cinema diventa l’opportunità di chiudere gli occhi sulla frenesia del mondo ed entrare nella trasformazione dell’opera, qualunque essa sia.
D’altronde, l’arte è un oggetto di non appartenenza, in continuo mutamento dal frangente in cui viene pensata dal suo autore a quando finisce nelle mani di chi ha il piacere di usufruirne, creando nuovi linguaggi, significati, sfumature. Non a caso, la psicoanalisi si appassiona e si interroga da sempre sul potere della dimensione che lo spettatore incontra nella narrazione delle storie, nel vissuto che governa a ogni incrocio con la rappresentazione. Il cinema, sotto questo punto di vista, può essere pensato anche come un sogno in cui il soggetto può pescare parti di sé, allacciandosi a zone nascoste, aree custodite con cura. In psicoanalisi, la rappresentazione filmica può essere considerata l’oggetto evocativo per eccellenza, in cui rintracciamo particelle primitive che albergano in noi.
Così inauguriamo un nuovo spazio per esplorare l’aspetto psicologico dietro quei significati e simboli che il cinema mette in scena mediante immagini, musiche, colori ed emozioni. Per farlo, in occasione del settantaseiesimo compleanno di John Carpenter, abbiamo deciso di iniziare dal cinema horror e dal suo intrinseco potere evocativo.
Cinema e Psicoanalisi

Freud sosteneva che l’analista dovesse essere uno schermo opaco in cui proiettare parti di sé, senza rivelare informazioni del proprio mondo. Questo, nel suo modo di concepire il percorso psicoanalitico, consentiva al paziente di vedere nell’analista qualcosa di appartenente ai suoi rapporti primari – uno schermo in cui vedere parti di sé. Il concetto di analisi (e soprattutto di relazione terapeutica) è assai cambiato nel corso degli anni: oggi possiamo pensare al rapporto che si instaura con il paziente come uno stare in una relazione e, dunque, anche nella possibilità da parte dell’analista di rivelare vissuti soggettivi utili per il benessere del soggetto.
Soffermandoci per un momento su questo concetto, non è così distante da quello che avviene quando si fruisce un prodotto cinematografico. Uno schermo in cui (ri)vedersi, capace di rendere dicibili vissuti non riconosciuti, mediante un processo di svelamento di sé (la storia narrata) che si mescola a quello dello spettatore (il vissuto personale).
Il cinema trasformativo

È piuttosto noto (e forse anche intuitivo) che ci siano aree di noi sommerse, appartenenti a una memoria non cosciente, che viaggiano sottopelle in qualche misura e che emergono, per esempio, tramite agiti. Aree non connesse, a volte neanche pronunciabili e dunque non significabili. Per consentire a queste parti di emergere ed essere integrate con il nostro vissuto cosciente, abbiamo necessariamente bisogno di un Altro, una mente che sia capace di riconoscere, cogliere e raccogliere tutte queste particelle per dar loro una forma.
Semplicemente, esistiamo nel momento in cui siamo nella mente di qualcun altro che ci riconosce.
Pensiamo a un bambino, per esempio, che percepisce, vive e prova stati differenti a cui può dare ordine e nome solo dopo che qualcuno lo ha fatto per lui. Un po’ come il piccolo Totò di Nuovo Cinema Paradiso, seduto sulla poltroncina mentre sorride ai colori delle luci dello spettacolo. Bion, uno degli psicoanalisti più importanti e celebri, chiamerebbe “elementi beta” ciò che non ha forma ed è più grezzo, definendo “funzione alfa” la capacità materna di restituire tutte queste particelle di elementi non ancora mentalizzati. Questo principio di trasformazione e riconoscimento può essere applicato anche al cinema, il quale compie, a tratti, un’operazione abbastanza simile.
L’esperienza cinematografica si connette con le nostre particelle nebulizzate e dà loro una forma attraverso un riconoscimento reciproco (spettatore-film). Il film diventa il testimone diretto dell’esperienza del soggetto, ma lo fa dall’interno, come parte dello spettatore stesso. La pellicola, dunque, prende le sembianze e il valore di un’esperienza soggettiva privata in cui riconoscersi, capace di far emergere dal sottopelle emozioni e memorie.
L’eco delle paure collettive

Il cinema horror, per definizione rappresentante massimo di un senso di angoscia che serpeggia, di un clima putrido e freddo che genera una sensazione di aghi sul corpo, contatta e si lega con le zone crepuscolari più traumatiche. L’horror capta e si accosta alle angosce primitive, sedimentate e ancestrali connesse all’ignoto, all’inconoscibile, all’informe e dunque anche alla morte. È dignitosamente infimo, perché pesca nelle paure più recondite che si colorano di aspetti familiari messi da parte, dissociati in qualche modo.
Se è vero che il cinema può fungere da oggetto evocativo, come affermava anche Bollas, permettendo la proiezione di parti interne, questo vuol dire che l’horror è lo specchio di pulsioni nascoste e paure rinchiuse. L’horror parla alle paure della folla, della comunità che urla all’unisono davanti alla maschera del mostro e tocca quel senso di morte universale che accomuna tutti gli esseri umani.
Il grande Incubo

Il trauma nascosto si condensa nei villain della pellicola, trasforma l’ordinario in perturbante – come direbbe Freud – rendendo color sangue le belle e ricche case d’America, crea scissione nei personaggi proponendo il tema del doppio. Nella prima parte dell’analisi abbiamo paragonato la visione del film a un sogno, che non è soltanto l’immersione in uno spazio-tempo altro, ma qualcosa che sta alle regole di un gioco in cui cela e mostra nello stesso istante. Il lavoro più importante è quello che segue l’esperienza della visione, l’elaborazione costante e continua che avviene dall’attimo dopo in cui usciamo dalla sala – o ci svegliamo dopo la notte – e prosegue per i giorni seguenti.
Nel genere horror la presenza e il cambiamento incessante di quelle particelle che si sono smosse dentro di noi, che devono ancora trovare una collocazione prima e una forma dopo, si fa cruciale proprio perché i vissuti sono ancora più primitivi – hanno a che fare con angosce radicate e antiche ancora più insature e soprattutto con elementi traumatici che per definizione risultano irrappresentabili. Un grande incubo di cui siamo co-protagonisti, co-sceneggiatori e co-registi.
E chi, se non John Carpenter?

Quando parliamo di angosce primitive che si muovono silenziosamente e lavorano immerse nel buio della nostra coscienza, possiamo indirizzarci verso un horror che impasta ingredienti di vario genere, snodandosi fra le ombre delle atmosfere dalla vista ridotta e dall’ineluttabilità del destino. John Carpenter, in questo e non solo, è senza dubbio un maestro. Horror, fantascienza e thriller generano l’orrore toccando e inscenando sensazioni claustrofobiche e paranoiche, corpi deformi, paure di contatto, alienazione. Il Male si insinua quasi al pari di un veleno: è spietato, misantropo, contamina, fa perdere il controllo e non può essere debellato, anzi si rigenera a ogni attacco, proprio perché immortale. Non abbiamo speranze contro di lui, anche perché in realtà vive in noi e l’uomo non potrebbe farne a meno per sua natura.
Carpenter mette in scena tutte queste fobie che, dopo la visione del film, rimangono addosso come parassiti e continuano a nutrirsi dei rimasugli del nostro soffocamento. Il suo cinema si dipana e assume maggior turbamento consumandosi fra le ombre, in giochi iconici con il sonoro. E proprio questo rappresenta l’altro cardine analitico delle sue opere: il muoversi verso orizzonti non visibili, il gioco di luci e ombre, di ciò che possiamo percepire con le antenne dei sensi, esclusa la vista.
Un’arte della mente

Le atmosfere di Carpenter sono capaci non solo di trasmettere una tensione crescente, ma anche di dare una forma di campo visivo psicologico che mette in risalto l’impossibilità di vedere oltre. Disorienta, annebbia e minaccia costantemente, come un pugile battuto dal vuoto che non riesce ad afferrare. Ma questo potrebbe essere anche concepito come il simbolo di una dimensione inconscia della mente dell’individuo, un sommerso tenuto dalle difese soggettive che permettono di tenerci compatti dinanzi alle minacce incontrollabili della vita.
Le pulsioni, le paure e l’indomabile irrompono nella tranquillità dell’ordinario, palesandosi anche mediante il corpo ed elementi informi che riportano a quel senso di elementi grezzi (beta) vomitati e senza possibilità di essere compresi. Il cinema di Carpenter apre gli scheletri che custodiamo con cura – e forse anche affetto – nei nostri armadi, li ribalta, ci gioca un po’ e, dopo averli rosicchiati, ce li riconsegna. Il risultato è un perfetto senso di impotenza e di alienazione, che possiamo permetterci di vivere davvero solo dopo esserci finalmente riconosciuti.
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