“Forse la differenza tra me e le altre persone è che ho sempre chiesto di più al tramonto. I più spettacolari colori, quando il sole incontra l’orizzonte. Forse è questo il mio unico peccato”. Così Joe (Charlotte Gainsbourg) si addentra nel suo abisso, incontra il proprio vuoto interiore e si apre alla possibilità di una nuova elaborazione. I colori di un tramonto, il sole che si accascia per lasciare spazio alla notte e risorge dal buio. Una sensazione che non satura, ha bisogno di maggior colore, più sfumature, deve essere più forte per placare quel dolore sedimentato e permettere di guardare l’oltre.
Lars von Trier dedica parte del suo impegno registico a un’opera complessiva conosciuta come Trilogia della depressione (Antichrist – 2009; Melancholia – 2011; Nymphomaniac – 2013), in cui i colori del tramonto personale si trasformano generando un panorama di follia mortifera sempre differente, ma che al contempo possiamo pensare come uno specchio intero della trasformazione clinica della depressione, a oggi profondamente cambiata rispetto alle prime concettualizzazioni della stessa.
L’Urlo di dolore

Depressione, deprimere, abbattere, buttare giù, appesantire. Ippocrate e la scuola greca associavano la presenza di un eccesso di bile nera all’incremento di un determinato vissuto, indicando anche simbolicamente la funzione di qualcosa di oscuro, il risucchio di un buco nero in cui scorgere il proprio grido di dolore – pensiamo a L’Urlo di Munch, come rappresentazione massima della disperazione.
Da un punto di vista nosografico, i disturbi depressivi, nel DSM (Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali), compaiono sotto la categoria diagnostica dei disturbi dell’umore, comprendendo diverse etichette, fra cui quella di depressione maggiore. Quest’ultima è contraddistinta da una serie di sintomi, quali la presenza di umore depresso, affaticamento, aumento o perdita di peso o appetito, minor interesse verso le attività quotidiane, minor concentrazione, insonnia o ipersonnia e altri. Secondo una prospettiva più dinamica, focalizzata non tanto sul cercare di organizzare, quanto sull’affacciarsi del vissuto soggettivo della sofferenza individuale, il senso della depressione si fonde con senso di colpa, termini luttuosi, vuoto, dolore di esistere, solitudine e disillusione.
Tutto ciò che è depressione – parte uno

Freud postulava la condizione melanconica come relativa a un delirio morale generante una ruminazione connessa al senso di colpa, la presenza di un Super-Io massiccio che comporta il rivoltamento contro il Sé. Si tratta di una colpa quasi costitutiva, ossia propria dell’esistenza, correlata alla vita, in cui prevale un lutto non elaborabile, stagnato. Una perdita che non può essere simbolizzata, perché straborda ed è impossibile compiere un passaggio.
Antichrist potrebbe essere pensato come un primo cardine di questa concettualizzazione. I due protagonisti, in un momento di fascinosa passione, perdono di vista il bambino che muore tragicamente cadendo dalla finestra. Si apre lo spazio luttuoso, contraddistinto da un tentativo di razionalità da una parte (e in un certo senso di onnipotenza narcisistica) e un delirio di colpa dall’altro. In un vortice di tratti psicotici, Lei e Lui incontrano una potentissima distruzione della coppia, fertilità, godimento che la donna tenta di agire attraverso l’aggressività sul corpo. Quello stesso involucro che per servire il proprio piacere ha portato alla morte del bambino e che quindi deve essere punito, mutilato e distrutto. Ciò che rimane dopo la caduta di Nic è solo un desiderio di morte reciproco, unico elemento presente ora nella coppia e che li unisce – simbolicamente riportato anche dal rapporto sotto la quercia con le radici prive di vitalità.
Tutto ciò che è depressione – parte due

L’impronta melanconica di stampo freudiano viene rivista da Recalcati alla luce delle nuove esigenze societarie. Se il principio base del dovere, governatore supremo delle epoche trascorse, è stato sostituito dal principio di godimento, la conseguenza è un legame con l’Oggetto reale, volto a saturare un vuoto interiore. Il legame con l’altro passa allora in secondo piano, lo spazio diviene impossibile da riempire e regna una ricerca costante. Il godimento desiderante, allora, non esiste più e la condizione è sempre più mortifera, indirizzata alla chiusura rispetto al mondo – per chi volesse approfondire, definita pulsione securitaria.
Quando parliamo di depressione o melanconia o stati simili, siamo portati a pensare a una chiara manifestazione di sintomi tipici che sono ad appannaggio di qualsiasi panorama fantasmatico di ognuno di noi. Ma esistono forme in cui il vissuto umano prende una manifestazione differente. Pensiamo ad esempio alla depressione essenziale descritta da Marty, psicoanalista francese che ha fornito un grosso contributo alla psicosomatica e che pensa a uno stato che non si lega a un evento traumatico in sé, ma accoglie invece un vissuto più globale. In questo senso, ciò che prevale è una morte interiore, una indisponibilità a sognare in qualche modo, in cui prevale il trascorrere preciso del tempo vuoto.
È chiaro, dunque, quanto nel parlare di depressione ci si avvicini a un universo caratterizzato da una ricchezza che al contempo è a contatto con il dolore e la profonda solitudine con cui il Soggetto ha strutturato il proprio mondo interno.
Solitudine a due voci

Quello che prevale nella Trilogia della depressione è proprio questo senso di solitudine con cui Lars von Trier caratterizza ogni personaggio. Il dolore per la morte di un figlio, la disperazione per madri fredde e sterili di amore, sensazioni di vuoto da colmare con l’impossibilità del legame e destini ineluttabili che garantiscono salvezza. Il vissuto è ancora più acuito dalla presenza reale di due personaggi chiave (Lui-Lei, Claire-Justine, Joe-Seligman), in cui si condensano sensazioni di non riconoscimento rispetto a quanto vissuto, rendendo l’esperienza ancora più solitaria. Difatti, il personaggio numero 2 della coppia tende a rafforzare la visione della disperazione rappresentata, seppur anch’esso risulti un individuo profondamente distrutto e frammentato.
Pensiamo a Melancholia, in cui Justine appare come la componente a prima vista più sofferente, consapevole della realtà che la circonda e anche di quella che si sta per palesare; Claire, invece, si figura come la più razionale, si sposa con la scienza, soccombe davanti all’ignoto. Entrambe figlie di una madre cinica e un padre inconsistente, Justine è l’unica ad avere le lenti per comprendere il mondo e il pensiero di essere inglobata non può essere altro che rassicurante.
Via via che Melancholia si avvicina e con esso il pensiero della morte, la donna sembra ritrovare uno spazio di serenità – tendenzialmente tipico del vissuto del soggetto suicidario. Quando la sofferenza diventa eccedente, il dolore psichico risucchia ogni spazio, mangiando come un Pac-Man la spinta vitale. E allora, il pensiero della distruzione diventa pace. Non a caso, il termine stesso di apocalisse – che in Melancholia coincide anche con la narrazione – significa proprio lo svelamento di una verità, come se la fine potesse essere la naturale conseguenza, qualcosa di necessario e liberatorio che solo Justine sapeva.
Il vuoto esistenziale

Una delle caratteristiche chiave del mondo depressivo è la sensazione di non poter essere amati. Il rivoltamento contro il Sé è come se sobbarcasse l’individuo della convinzione di non poter essere voluto dall’Altro, che si trasforma in un senso di colpa e destino inesorabile. In tal senso, Nymphomaniac è probabilmente l’opera più esplicita nei termini della sofferenza della protagonista. Dalla storia della donna possiamo evincere la (non)presenza di una madre, per certi versi, morta. Non vede la figlia, non riesce ad accarezzarla affettivamente e Joe non ha probabilmente mai incontrato il suo sguardo per vedersi come un Soggetto nato. La sua vita è vuota e si sbilancia verso il tentativo di sentire emozioni forti mediante l’unico mezzo disponibile: il corpo.
A proposito della psicoanalisi isterica, Masud Khan sostiene che vi sia un desiderio di compensazione della perdita delle cure materne attraverso una sessualità precoce e spinta per riparare alle mancanze vissute. Il sesso ristabilisce un senso di sé, fa sentire vivi in modo paradossalmente mortifero, perché in realtà si configura solo come una dipendenza dall’Oggetto-Cosa, escludendo la parte relazionale. Il dialogo con Seligman (Stellan Skarsgård), nato in un momento di forte accudimento, rappresenta un tentativo di prima relazione per Joe, che si lascia andare a un racconto senza maschere, mettendo dunque in gioco la possibilità di un legame autentico. Il destino però ricade su di lei come un Melancholia, disintegrando ogni possibilità. Quella sorta di setting terapeutico, in cui la funzione dell’analista Seligman che aiuta Joe nel rielaborare la sua storia, viene completamente distrutto nel tentativo dell’uomo di avvicinarsi a lei e ripetere traumaticamente ciò che ha sempre vissuto. Il suo bisogno di essere realmente accolta e amata come individuo non è pensabile apparentemente – e allora, la morte dell’uomo come simbolo della possibilità di liberarsi.
Lars von Trier e il desiderio di chiedere di più al tramonto

Chiedere di più dal tramonto significa desiderare qualcosa di irraggiungibile, esattamente come Joe persegue in Nymphomaniac. Una ricerca illusoria di un senso di accudimento che la natura non può dare e al contempo una presa di consapevolezza dei propri e altrui limiti. Perché nella Trilogia di Lars von Trier si cela un’altra grande protagonista assoluta: la natura.
La Grande Madre che riesce a consolare e unire (il padre di Joe è un amante ed esperto in tal senso), ma al contempo è distruttiva (il bosco, Melancholia). Ciò che von Trier espone è l’ambivalenza costante del ruolo materno, che da una parte dà la vita, ma dall’altra la distrugge simbolicamente ed è profondamente malvagia. Il suo grande ventre è in un certo senso omicida della vita e il bambino, alla fine, questo non può accettarlo e per questo continuerà a sperare, osservando un tramonto che in realtà più di tanto non può dare.