Scrittrice, sceneggiatrice, regista e montatrice, Catherine Breillat è una delle figure più importanti e controverse del cinema francese. Nel 1968 esordisce con il romanzo L’homme facile, scritto a soli diciotto anni, il quale suscita uno scandalo letterario in Francia. Le prime esperienze sul set sono a fianco della sorella attrice Marie Hélène in Ultimo tango a Parigi di Bernardo Bertolucci. Più avanti nella sua carriera collaborerà con Fellini, Bellocchio e Liliana Cavani. In occasione dell’uscita nelle sale italiane del suo ultimo film Ancora un’estate (qui la recensione), ragioniamo sull’opera di una delle registe più discusse del cinema contemporaneo.
Eros e thanatos
Nel 1920 Sigmund Freud pubblica il saggio Al di là del principio di piacere, nel quale introduce la sua teoria delle pulsioni. Lo psicanalista austriaco si rifà a Empedocle per descrivere le due pulsioni umane principali e il conflitto che deriva dalla loro coesistenza, la pulsione di vita, l’Eros, creazione ed armonia, e quella di morte, Thanatos, violenza e distruzione.
È proprio questo conflitto che caratterizza a livello macroscopico l’opera di Breillat, che sembra muoversi in senso psicanalitico su questi binari opposti e paralleli. La doppia spinta è infatti onnipresente nella rappresentazione dei rapporti umani all’interno di tutta l’opera della regista specialmente nell’espressione carnale della (etero)sessualità.
La rappresentazione del sesso costituisce indubbiamente l’aspetto più caratteristico ed evidente dei film di Catherine Breillat: questo infatti – che per Freud rientrerebbe nell’aspetto della pulsione di vita, dell’Eros – è invece qui fortemente legato all’istinto di morte. Non c’è niente di creativo e armonico nella rappresentazione sessuale, la quale viene utilizzata come mezzo per veicolare una visione delle relazioni e dei desideri umani complessa e spesso amara e desolata.
La morte aleggia su gran parte della filmografia della regista, a volte in senso omicidiario come in A real young girl – film d’esordio censurato e distribuito ufficialmente solo più di 20 anni dopo – o in A mia sorella! (2000), ma anche in senso ampio di autodistruzione, come in Romance (1999) o in Anatomy of hell (uscito in Italia nel 2003 con il titolo Pornocrazia), entrambi guidati da due protagoniste adulte con forti pulsioni autolesionistiche.
Questo ritratto del sesso sotto una chiave oscura, quindi anti-creativa, anti-riproduttiva in senso sia artistico che biologico, rende il cinema di Breillat già di per sé scandaloso. Se il sesso è tabù per antonomasia, rompere con la tradizionale rappresentazione dello stesso diventa una trasgressione amplificata, specialmente se a farlo è una donna.
Le eroine istintive di Catherine Breillat
La trasgressione intesa letteralmente come violazione di una norma è poi evidente nella modalità di scrittura e messa in scena dei soggetti femminili. Le protagoniste dei film di Breillat sono donne a volte mature ma più spesso giovani e giovanissime, ritratte nel loro ambientarsi e fare esperienza anche corporea del mondo. Sono soggetti smaniosi e desideranti, psichicamente complessi e sfaccettati, dotati spesso di un Es eccessivo, strabordante.
La scoperta e riscoperta della sessualità di queste eroine passa, come accennato, attraverso l’autodistruzione che non è mai fine a se stessa, bensì diventa mezzo che scompone psichicamente la mente femminile, è una pratica di reclamazione della propria posizione psicologicamente attiva, a volte con risultati del tutto inquietanti. Resta infatti abbastanza spiazzato a primo impatto lo spettatore di fronte a sequenze a volte ripugnanti, di una sessualità oscena ma non volgare, piuttosto ingenua nel senso di libera da qualsiasi architettura che intrappoli la sessualità femminile dentro degli standard di “decenza”.
La sessualità femminile viene quindi messa in scena in maniera grezza e respingente e viene spogliata del tutto dalla sensualità. I desideri più viscerali, sporchi, a volte addirittura immorali sono esibiti di fronte a un pubblico che può rimanere disturbato da una così tanta espressione sessuale che diventa a un certo punto anche mostruosa. C’è infatti molto in Catherine Breillat del concetto di abiezione formulato da Julia Kristeva: l’abietto è qualcosa che non rispetta i limiti, le regole e i ruoli, disturbando l’identità, l’ordine e il sistema. Il mostruoso femminile sta nella funzione riproduttiva della donna e l’abominazione sta tanto nella decomposizione e la morte che nell’immoralità sessuale e nel corpo femminile stesso. Un cinema corporeo che effettivamente rimanda molto a David Cronenberg, a cui la stessa regista si accosta volentieri. Il corpo sessuato e sessuale mostruoso si trasforma e viene sradicato dall’erotismo puro per diventare qualcosa di altro nella lezione di Antonin Artaud, alterità che emancipa il corpo dalla sua carne, prigione estetica e culturale.
Quest’alterità mostruosa però non finisce qui, Breillat infatti non si limita a rappresentare queste eroine pulsanti di desiderio nella loro individualità, ma piuttosto le colloca all’interno della società mettendole di fronte a tutta una serie di figure -principalmente maschili- che sono obbligate a negoziare questa sessualità incontrollabile. In questo modo l’autrice espone la società per la sua misoginia strisciante, dove la sessualità femminile incontrollata e in senso lato la donna in generale, viene vista con disgusto. Senza mezzi termini è proprio ciò che esprime Fernando, il personaggio interpretato da Libero De Rienzo in A mia sorella!, e lo stesso dichiara l’Uomo (Rocco Siffredi) in Anatomy of hell.
Queste figure rappresentano in qualche modo il rimando di questa femminilità non addomesticata che spaventa in senso ancora freudiano, cioè come assenza e differenza. Questa mancanza costituisce quindi uno specchio, poiché spesso sono le stesse protagoniste a detestarsi. In questo senso le donne si misurano con l’alterità in maniera consapevole e consensuale, aiutando a comprendersi attraverso lo sguardo esterno spesso ben poco amorevole.
In Romance, uno tra i film più belli e rappresentativi della regista, la protagonista Marie è una giovane maestra elementare che si trova in una situazione di frustrazione e di disprezzo verso se stessa. Il suo compagno Paul si rifiuta di avere rapporti sessuali con lei ed è anzi piuttosto disgustato dalla sua libido. Questo spinge Marie a cercare appagamento sessuale altrove, sviluppando una relazione sadomasochistica con il preside della scuola dove insegna. In un rapporto apparentemente nato senza alcun amore, Marie scopre il piacere e affronta anche i propri limiti, crescendo e arrivando a uno stato successivo di consapevolezza. È soltanto quando rimane incinta che Paul sembra ritrovare l’attrazione nei suoi confronti, in quanto la maternità sembra richiuderla dentro uno standard rassicurante di femminilità. Marie però ora vive la gravidanza con una consapevolezza nuova e diversa e non si accontenta dell’accondiscendenza di Paul in uno dei finali più onirici e potenti della filmografia di Breillat.
Sesso e potere
Il terzo lungometraggio della regista, 36 fillette (1988), ha come protagonista Lili, una quattordicenne sfacciata e annoiata in vacanza sulla costa francese. Obbligata da una famiglia patriarcale e oppressiva a uscire solo se accompagnata dal fratello, una sera si separa da quest’ultimo e conosce il playboy decaduto Maurice. L’uomo, molto più grande di lei, nonostante una breve resistenza iniziale intraprende una sorta di relazione sessuale con la ragazzina, in una manipolazione apparentemente reciproca ma chiaramente sbilanciata. Lili pone sempre i suoi limiti con Maurice, il quale però non sempre li rispetta. Nonostante ciò, nel ribellarsi la ragazza si pone in una posizione che potremmo definire attiva, negoziando un rapporto nel quale per sua stessa natura è necessariamente la parte debole. Lili testa il suo potere verso gli uomini più grandi di lei ma scopre che questo è però un potere fittizio.
La differenza d’età è un tema molto frequente nella filmografia della regista, che la affronta decisamente dal punto di vista del potere e delle sue implicazioni. Lili, come anche Elena di A mia sorella! o Alice di A real young girl non sono pure adolescenti precoci eroticizzate, bensì sono espressione di una sessualità acerba che crede di detenere un potere che effettivamente non ha.
È coerente in questo senso il ribaltamento del punto di vista, in quanto spesso la regista ritrae donne mature in relazione con uomini più giovani. Ciò accade per esempio in Brief Crossing (2001), dove un giovane intrattiene una relazione con una donna sposata, in Abuse of Weakness (2013), ma soprattutto nell’ultimo Ancora un’estate (2023). Il lungometraggio in concorso alla 76esima edizione del festival di Cannes esplora infatti il tabù del rapporto a tinte incestuose tra una donna adulta, Anne, e il figlio minorenne nato da un precedente matrimonio del marito, Théo. La torbida relazione tra i due si delinea sempre su un doppio binario di consensualità (di fatto effimera) e di abuso, portandoci anche a ragionare in maniera più ampia sui diversi modi di esercitare il potere nella società. Breillat ci spinge dunque a interrogarci sui limiti della consensualità senza però relegare i suoi soggetti abusati in una posizione di totale passività inerme.
Un femminismo problematico
I film di Catherine Breillat sono stati largamente studiati e interpretati sotto una lente femminista: il suo approccio di liberazione della sessualità femminile, la sua rappresentazione inedita e non-patinata della donna e del rapporto tra i sessi rendono infatti i suoi film molto vicini a temi cari al movimento. Allo stesso modo però, all’occhio contemporaneo, la sua opera può risultare problematica da diversi punti di vista, spesso infatti le sue protagoniste si sottomettono volontariamente a delle relazioni abusanti e intrattengono rapporti con uomini misogini e anche violenti.
A tal proposito l’autrice e studiosa Beatrice Loayza definisce il femminismo di Breillat “incerto”, proprio perché non si riferisce direttamente al movimento, ma tocca in modo trasversale molti dei suoi punti nevralgici. La regista, infatti, pur citando spesso Simone De Beauvoir specialmente nel modo in cui essa si relaziona alla vergogna femminile, e pur collaborando con Virginie Despentes, non si è mai riconosciuta in un femminismo contemporaneo, tanto da aver fortemente criticato ai tempi il movimento del #MeToo.
A ben vedere l’autrice nel suo rompere gli schemi della rappresentazione sfida anche gli standard del femminismo occidentale, innanzitutto quello della seconda ondata proponendo una visione individualistica e forse anche edonista, ma sfida anche quello della terza ondata poiché non propone un’immagine della sessualità gioiosa, scanzonata e per questo empowering. Tuttavia la forza del suo cinema sembra stare proprio nel suo non conformarsi a un’agenda specifica, l’essere inconsapevolmente e puramente femminista le ha effettivamente permesso di spianare la strada a una rappresentazione femminile libera e anticonvenzionale che ancora oggi è rara nel panorama contemporaneo.
Le autrici che più sembrano aver introiettato la lezione del suo cinema sono in realtà ben poche ma vale la pena citarle, come Jessica Hausner, ma anche Céline Sciamma, Julia Ducournau e la giovane Carmen Jaquier. L’organicità dell’opera di Catherine Breillat la rende una delle figure più importanti del cinema femminile contemporaneo, grazie alla sua inedita capacità di portare sullo schermo le contraddizioni di una femminilità autentica, grezza, libera da sovrastrutture ideologiche. Un cinema corporeo, trasgressivo, fatto di sangue e fluidi corporei, di personagge attive e in movimento, tra creazione e autodistruzione. Un cinema potente e trasgressivo, ma essenzialmente umano e compassionevole che ha cambiato e continua a cambiare la rappresentazione femminile rompendo le norme del decente e del rappresentabile.
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