Sono passati settant’anni, e il film di Gene Kelly e Stanley Donen è ancora argomento di discussione tra cinefili, critici e appassionati del genere musical: Cantando sotto la pioggia è davvero il miglior musical di sempre? Quelli dell’American Film Institute così avevano decretato oltre 15 anni fa, mettendolo in cinema alla loro classifica, superando anche un altro capolavoro quale West Side Story o un classico immortale come Il mago di Oz; ma il dibattito è ancora aperto, e probabilmente la sarà sempre. Ma si tratta di un dibattito, per quanto ozioso e inconcludente, che ci offre una perfetta scusa per continuare a parlare di questi film meravigliosi e soprattutto continuare a rivederli, soprattutto quando ci viene dato l’opportunità (sempre più rara) di farlo al cinema. Grazie alla Cineteca di Bologna, e ad un nuovo scintillante restauro in 4K de Il Cinema Ritrovato, Singin’ in the Rain ritorna in sala anche in Italia, in occasione dei 70 anni di un film che, però, la sua età non la dimostra affatto. O meglio, ci ricorda semmai tutta la magia di un cinema che ora non c’è più, ma anche di come bastano poche scene per far ritornare in noi tutto l’amore e la passione per un intero genere cinematografico.
Origini umili per un successo imprevisto e inaspettato
Che si voglia o meno considerarlo il miglior musical di sempre, di certo Cantando sotto la pioggia ha delle caratteristiche che lo rendono unico, a partire, per esempio, dalle origini del progetto: l’idea del film infatti non arriva da Broadway o da ispirazioni letterarie, ma dall’esigenza meramente commerciale di uno dei produttore della MGM, Arthur Freed, di riprendere molte delle sue canzoni scritte a quattro mani con Nacio Herb Brown durante gli anni ’30 e renderle nuovamente popolari. Fu proprio per questo motivo che i due sceneggiatori ingaggiati da Freed – Betty Comden e Adolph Green, autori anche dell’unica vera canzone originale del film (Moses Supposes) – scelsero di ambientare la storia del film proprio ad Hollywood e sul finire degli anni ’20, durante il passaggio dal cinema muto a quello sonoro.
Cantando sotto la pioggia è quindi sì un musical in senso classico, visto che contiene al suo interno un gran numero di canzoni orecchiabili e spettacolari coreografie, ma è anche e soprattutto un film sulla prima era di Hollywood: una splendida lettera sugli albori della settima arte e quindi a tutta la magia di un cinema che non c’era già più 70 anni fa, figuriamoci adesso. Il tutto con un tono divertente e divertito che lo trasforma anche in una commedia irresistibile e senza tempo, un film che col passare degli anni e dei decenni è stato sempre più amato e apprezzato, tanto dalla critica quanto il grande pubblico. Va comunque notato come Singin’ in the Rain all’inizio non sia stato un grande successo commerciale, e anche l’apprezzamento da parte della stessa industria che racconta – come dimostrano le due sole nomination agli Oscar ottenute, dispetto per esempio delle otto candidature, e sei statuette, dell’anno precedente ad Un americano a Parigi – tardò ad arrivare.
Non solo Gene Kelly
Se oggi, invece, Cantando sotto la pioggia è l’emblema del musical americano, lo si deve soprattutto al carisma e al talento del suo protagonista: perché nonostante l’attore e coreografo Gene Kelly abbia al suo attivo decine di titoli, sarebbe davvero impossibile per chiunque non associarlo a quella celebre danza sotto la pioggia e a quell’accattivante motivetto poi ripreso anche da Stanley Kubrick in Arancia meccanica. Ma Singin’ in the Rain non è solo Gene Kelly, tutt’altro. Anzi non sono in pochi coloro che ritengono che Donald O’Connor non solo riesca a tenere il passo del suo ben più celebre collega ma addirittura a quasi superarlo in alcuni momenti: di certo ruba la scena come nel numero Make ‘Em Laugh, in cui il 27enne O’Connor si esibisce in una coreografia estremamente difficile da un punto di vista fisico, ma anche incredibilmente divertente.
Cantando sotto la pioggia è anche il film che segna il debutto come protagonista di un’appena ventenne Debbie Reynolds: grazie alle sue doti canore, l’attrice fu scelta nei panni dell’adorabile ma impertinente interesse amoroso di Gene Kelly, pur non avendo mai ballato prima in vita sua. Fu lo stesso Gene Kelly a insegnarle prima le basi e poi le coreografie, con metodi forse anche piuttosto bruschi che non hanno fatto altro che incrementare la leggenda e la fama del film: per esempio si racconta che per il numero di tip tap in Good Morning, la Reynolds fosse stata costretta a provare e riprovare fino ad avere i piedi che le sanguinavano… per poi comunque ritrovarsi nella versione finale del film con i propri passi “ridoppiati” da un Gene Kelly comunque non soddisfatto. Anche a causa dell’inesperienza della sua co-star, Kelly e Donen decisero di inserire nell’ambiziosa e impressionante coreografia finale del film (Broadway Melody) un’altra ballerina: la magnifica Cyd Charisse. Ma d’altronde i più attenti noteranno, nelle primissime scene del film, anche la presenza di una giovanissima Rita Moreno.
Sarebbe però davvero ingiusto non celebrare anche colei che forse più di tutti rappresenta l’anima comica del film, ovvero l’incredibile Jean Hagen che per la sua Lina Lamont ricevette anche una candidatura all’Oscar come migliore attrice non protagonista. Pur non comparendo mai nei numeri musicali che hanno reso celebre il musical, la Hagen non è solo una “villain” straordinariamente divertente – tra l’altro costantemente rubando la scena a tutti con battute irresistibili e tempi comici davvero inarrivabili – ma anche una critica feroce allo star system hollywoodiano, al culto dell’immagine prima di ogni cosa. Se Cantando sotto la pioggia è molto più che un “semplice” musical, se è anche una commedia cult e un meraviglioso atto d’amore per il cinema (d’altronde lo stesso The Artist vi ha attinto a piene mani), grosso del merito va proprio a Jean Hagen e al suo personaggio.
“I’m dancing and singin’ in the rain”
Cantando sotto la pioggia non è solo Gene Kelly abbiamo detto, ed è vero. Ma Cantando sotto la pioggia senza Gene Kelly non sarebbe il capolavoro che è e non sarebbe il film che continuiamo ad amare e celebrare anche a 70 anni dalla sua uscita. Non fu questo il film che mostrò al mondo il suo talento, Kelly era già noto ad Hollywood da oltre un decennio: aveva già lavorato con personalità del calibro di Fred Astaire, Judy Garland, Rita Hayworth, Frank Sinatra e molti altri (perfino il topolino cartoon di Tom and Jerry), con registi quali Vincent Minnelli e, come già anticipato, aveva appena sbancato gli Oscar con Un Americano a Parigi, vincendo tra l’altro anche la statuetta per il Miglior Film.
Eppure, ancora oggi, è proprio il numero musicale che dà il titolo a questo film ad essere considerato il suo miglior risultato. In parte per i racconti leggendari sulla sua realizzazione – in cui si alternano alcuni veri (sì, Gene Kelly effettivamente aveva 40° di febbre) e altri falsi (no, non fu girato in una ripresa e nemmeno in una sola giornata) – e certamente per il suo talento nella danza e per la magnifica coreografia in parte improvvisata. Ma quello che rende ancora oggi quella scena inimitabile e insuperabile è l’essenza stessa di ogni musical, quella necessità quasi inspiegabile di condividere, attraverso il canto e la musica, la gioia e le emozioni che sono all’interno. Il numero Singin’ in the Rain è esattamente quello, un uomo adulto che esprime la propria felicità e il proprio amore come fosse un bambino, saltando nelle pozzanghere e accogliendo la pioggia nella sua vita come un’ulteriore scusa per cantare e ballare. Tanto che al poliziotto che alla fine lo guarda con sguardo severo risponde semplicemente: “I’m dancing and singin’ in the rain“. Come a dire niente di strano, d’altronde siamo in un musical, no? Una dichiarazione metacinematografica e quasi rivoluzionaria che esalta l’intero genere e svela una volta per tutte il vero potere del cinema: quello di farci sorridere sempre e di mostrarci il sole anche sotto la pioggia battente.